Quel guanto scomparso e la verità che lo Stato non ha voluto vedere

Un guanto marrone scomparso quarantacinque anni fa. Dentro, forse, la verità su un delitto che ha segnato la storia della Sicilia e dell’Italia. L’assassinio di Piersanti Mattarella non fu solo un atto di mafia, ma la resa di uno Stato che scelse di tacere. Oggi quel silenzio torna a farsi processo.

Era il 6 gennaio del 1980. Palermo si svegliava con il fragore di un colpo che non era solo di pistola, ma di destino. Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana, cadeva sotto i colpi di un killer “dal viso gentile e lo sguardo di ghiaccio”, davanti agli occhi della moglie, della suocera e della figlia. Pochi istanti dopo, il fratello Sergio accorse sul posto e lo aiutò a estrarlo dall’auto, stringendolo tra le braccia in un gesto che resta impresso nella memoria del Paese. Un uomo che aveva osato immaginare una Sicilia diversa, libera dal ricatto delle famiglie e dai compromessi della politica. E per questo fu ucciso. Non dalla mafia soltanto, ma da un sistema intero.

Quel sistema che, quarantacinque anni dopo, torna a emergere dalle ombre di un guanto. Un guanto di pelle marrone, abbandonato dal killer sotto il sedile della Fiat 127 usata per la fuga. Un oggetto qualunque, eppure decisivo. Dentro, il Dna dell’assassino, che in quegli anni non poteva ancora essere isolato: all’epoca la scienza si fermava alle impronte digitali. Non è chiaro se furono davvero raccolte e catalogate. Ma oggi non resta alcuna traccia, nessuna catena di custodia, nessuna prova. Tutto è scomparso insieme alla verità. Oggi la Procura di Palermo accusa un ex uomo dello Stato, Filippo Piritore, allora giovane funzionario della Mobile, poi prefetto, di averlo fatto sparire. Non un mafioso, non un terrorista, ma un servitore dello Stato. Un uomo che ha giurato fedeltà alla Repubblica e che, secondo i magistrati, avrebbe contribuito a depistare un’indagine fondamentale per la storia del Paese.

Dietro di lui, sullo sfondo, la figura di Bruno Contrada, il superpoliziotto di Palermo, poi numero due dei servizi segreti, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Le carte della procura parlano di un legame “oltre la sfera professionale”, un rapporto di amicizia che Contrada però smentisce. E tornano a ricordarci ciò che sappiamo, ma che spesso fingiamo di dimenticare: che in quegli anni lo Stato era diviso in due. Uno che cercava la verità, e uno che la nascondeva. Il guanto, come tante prove di quegli anni, non è solo un oggetto scomparso. È il simbolo di una verità smarrita, di un Paese che ha lasciato evaporare la giustizia nel tempo. Perché Mattarella non fu solo vittima di un delitto politico. Fu la prima vittima della seconda Repubblica, quella delle menzogne di Stato, dei depistaggi, dei silenzi istituzionali. Un uomo ucciso due volte: la prima dai colpi di pistola, la seconda dal tradimento di chi avrebbe dovuto cercare la verità.

Mattarella era un democristiano. Voleva una Sicilia con le carte in regola. Rifiutava l’abbraccio dei clan, bloccava appalti miliardari, isolava Vito Ciancimino e i suoi affari. Era l’erede morale di Aldo Moro, un cattolico che credeva nella trasparenza, nel dialogo, nella pulizia della politica. E per questo divenne un bersaglio. La mafia premette il grilletto, ma non fu sola. C’erano mani di destra e mani dello Stato. C’erano uomini che sapevano e che non parlarono. C’erano archivi aperti e prove occultate. E c’era un Paese che preferì dimenticare piuttosto che guardarsi dentro.

Come ricorderà anni dopo Giovanni Falcone, raccogliendo le parole del pentito Tommaso Buscetta: «Nell’omicidio Mattarella vi era una concordia di fondo di tutta la commissione sull’eliminazione, nel senso che non interessava a tutti più di tanto che rimanesse in vita; però nel momento più acuto della crisi, ognuno aveva paura di fare il primo passo. Stefano Bontate aveva preferito stare alla finestra. Se per l’omicidio Mattarella fossero stati utilizzati killer mafiosi, in due secondi chiunque all’interno di Cosa nostra avrebbe saputo chi aveva ordinato l’omicidio».

Falcone, con la lucidità che ancora oggi risuona come una lezione di metodo e di verità, aggiunse: «L’uccisione di Mattarella presuppone un coacervo di convergenze e interessi di grandi dimensioni». Non un solo mandante, dunque, ma un accordo più ampio, dove mafia, eversione nera e settori infedeli dello Stato trovarono un punto d’incontro. Chi decise quell’omicidio non lo fece per vendetta o per denaro, ma per fermare un’idea: quella di un potere trasparente, che non si piega ai ricatti e alle ombre.

Quella stagione di sangue e depistaggi  – da Moro a Mattarella, da La Torre a Falcone e Borsellino – non fu solo un elenco di vittime eccellenti. Fu la mappa di un potere oscuro, dove le mafie, l’eversione nera e pezzi infedeli delle istituzioni si toccavano e si proteggevano. Non servivano più le bombe per insabbiare la verità. Bastava far sparire un guanto. Ora, dopo quarantacinque anni, il tempo non cancella ma restituisce. Le indagini della Procura di Palermo riaprono il solco di una storia che è ancora ferita. E se davvero quel guanto è stato fatto sparire, allora la Sicilia e l’Italia devono chiedersi quante altre prove abbiamo perso, quanti altri segreti abbiamo sepolto nel silenzio delle stanze del potere.

Ci sono immagini che non sbiadiscono. Quel corpo sul sedile dell’auto, le mani di un fratello che stringono il corpo di un altro, il sangue sull’asfalto di via Libertà. E ora, l’eco di un nome di un indagato, che torna come una pietra nel pozzo della memoria. Cosa resta della lealtà, del dovere, del giuramento di fedeltà allo Stato, se un funzionario può scegliere di servire il buio?

Ma forse la storia non è finita. Perché ogni verità negata, prima o poi, ritorna. Forse nei faldoni dimenticati, forse nelle parole di chi non vuole più tacere. La verità non si cancella, si attende. E a volte, dopo decenni, riesce ancora a bussare alla porta della giustizia. Non sappiamo se quel guanto tornerà mai a riemergere, o se la scienza riuscirà a leggere, su una traccia invisibile, il volto di chi sparò. Ma sappiamo che la memoria di Piersanti Mattarella non appartiene più solo alla Sicilia. È un’eredità morale per tutto il Paese. Ci ricorda che la politica può essere onestà, che il potere può essere servizio, che la verità – anche se arriva tardi – vale più della menzogna che dura mezzo secolo. Forse non sapremo mai chi premette il grilletto. Ma oggi sappiamo chi spense la luce. E ricordarlo è già un atto di giustizia.

Parole chiave: Piersanti Mattarella, omicidio Mattarella, Filippo Piritore, Bruno Contrada, depistaggio, mafia, terrorismo nero, Procura di Palermo, Giovanni Falcone, Tommaso Buscetta, Aldo Moro, verità, giustizia, memoria, Sicilia

Intanto, farà ricorso al Tribunale del Riesame l’ex prefetto Filippo Piritore, sottoposto agli arresti domiciliari con l’accusa di aver ostacolato le indagini sull’omicidio di Piersanti Mattarella, allora presidente della Regione Siciliana. I suoi difensori, gli avvocati Gabriele Vancheri e Dino Milazzo, presenteranno nei prossimi giorni l’impugnazione contro il provvedimento firmato dal gip Antonella Consiglio, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Palermo.

Le persone coinvolte sono da considerarsi innocenti fino a sentenza definitiva di condanna, nel pieno rispetto del principio di presunzione di innocenza.