Alba d’Acciaio e Tramonti di Sogno: La Nostra Odissea in Moto nell’infinita Tunisia
Svegliarsi prima dell’alba, sentire il rombo dei motori che si scalda nel silenzio della notte: è così che inizia la nostra avventura. Ci siamo ritrovati in dieci, con le nostre moto parcheggiate in fila davanti a casa di Dario, i caschi appoggiati sulle selle e lo sguardo già acceso di aspettativa. Dario Di Mauro e Nico Siragusa i capitani di questo piccolo plotone cilindrico, pronti a condurlo verso Palermo e oltre, fino al cuore pulsante della Tunisia. Il rombo delle nostre dieci due ruote si è unito in un unico coro quando abbiamo lasciato Catania, la città ancora addormentata alle nostre spalle. Il vento ci sferzava il volto, portando con sé l’odore forte del mare e la promessa di un viaggio fuori dal comune. Ad ogni curva lungo la costa occidentale dell’Isola, il cuore batteva più forte: l’Etna, oltre le nuvole basse, sembrava a salutarci con un pennacchio di fumo, un cenno amichevole prima della traversata. Arrivati a Palermo, abbiamo trovato posto per le moto sul traghetto: tenere ferme le nostre inseparabili compagne di strada è stato un piccolo patto tra noi, un modo per non tradire quella fedeltà meccanica che ci aveva portato fin lì.
Con il mare davanti e la sagoma di Sicilia che sfumava lentamente, ci siamo goduti il risveglio del Mediterraneo. Quando le luci di Tunisi sono apparse all’orizzonte, il gruppo si è stretto in un silenzio di meraviglia. Sbarcati, ci aspettava Karim Jaafar: braccio alzato, sorriso largo, occhi che brillavano di storie da raccontare. “Bienvenue en Tunisie!” ci ha gridato, e in quel momento siamo passati da turisti a viaggiatori veri: pronti ad esplorare, a chiedere, a perderci e a ritrovarci. Karim è più di una guida: è un narratore instancabile, un professionista che conosce la Tunisia come le sue tasche. Sa raccontarne ogni storia, indicare ogni sentiero, spiegare ogni tradizione. Accanto a lui ogni tappa si trasforma in esperienza, ogni luogo visitato prende vita con profondità e autenticità. Questo viaggio, organizzato con cura da un gruppo di amici, non è il solito “mordi e fuggi”. È un itinerario pensato per chi desidera toccare con mano la storia, la cultura, le emozioni di un Paese accogliente e complesso. L’organizzazione non lascia nulla al caso: ogni hotel, ogni ristorante, ogni percorso è scelto con attenzione maniacale per la pulizia, la sicurezza e la qualità, garantendo al gruppo un viaggio all’insegna della scoperta e del comfort.
È così che comincia la nostra avventura tunisina: con il vento del porto di Tunisi sul volto e la promessa, già mantenuta, che quello che stiamo vivendo non sarà solo un viaggio, ma un racconto da ricordare per sempre. E da qui, con Karim a guidarci, inizia il nostro cammino attraverso i tesori di Qayrawan, le oasi del sud, il cuore minerario di Métlaoui, i deserti cinematografici di Ong Jmel e Mos Espa, i granai berberi di Tataouine e le case trogloditiche di Matmata. Ma tutto è cominciato lì, all’alba, sul molo di Tunisi, con un sorriso sicuro e due parole semplici: “Benvenuti in Tunisia.”
A Qayrawān, un centro millenario fondato nel 670 d.C. dal condottiero ʿUqba ibn Nāfiʿ, che qui edificò la Grande Moschea. Si ammira da subito la vastità del suo cortile porticato, la sala di preghiera scandita da lunghe file di colonne e l’inconfondibile minareto quadrangolare, tra i più antichi e meglio conservati dell’Africa settentrionale. Poco lontano, i maestosi Bacini Aglabiti — immense vasche di mattoni rossi costruite tra l’VIII e il IX secolo per raccogliere l’acqua piovana — offrono un’oasi di frescura e silenzio, perfetta per una passeggiata all’ombra.
Varcando le antiche mura della medina, abbiamo ammirato un dedalo di vicoli punteggiati di botteghe dove artigiani tessono i celebri tappeti “qayrawāni”, cesellano ceramiche o lavorano filigrana d’argento. Le porte monumentali di Bab al-Kbīr e Bab al-Jenīn vi ricorderanno la potenza difensiva della città medievale. Poco oltre il cuore pulsante dei mercati si staglia la piccola ma incantevole Moschea del Barbiere, con il suo cortile raccolto e i portali finemente decorati, mentre il vicino Santuario di Sīdī Sahab custodisce la sacra ḫirqa, il manto del Profeta Maometto, meta di pellegrinaggi e devozione. Chi cerca un angolo di raccoglimento potrà trovare pace nella Moschea di al-Thūnāyā, con il suo patio intimo e il bianco biombo in legno scolpito.
Siamo partiti da Qayrawān con la sensazione di attraversare un portale nel tempo. Fin dai primi chilometri, ci siamo immersi in secoli di storia islamica, tra moschee solenni, artigianato raffinato e frammenti di quotidianità tunisina che si svelavano dietro ogni porta socchiusa, ogni gesto gentile. Il suq era un dedalo di profumi e colori, e i nostri passi — ancora incerti all’inizio — hanno cominciato a seguire un ritmo nuovo, più lento, più consapevole. Poi la strada ha cambiato tono. Le nostre moto ci hanno portato verso sud, verso le prime linee del deserto. Tamaghza è stata la porta d’ingresso: oasi verde incastonata tra rocce rosse, dove l’acqua scorre come un segreto che si rinnova ogni giorno. Ci siamo fermati, abbiamo respirato a fondo, ascoltato il silenzio profondo che si fa voce tra i canyon. Da lì, la tappa successiva è stata Métlaoui. Qui il paesaggio si è fatto più duro, più crudo. Eravamo nel cuore del bacino fosfatico della Tunisia centrale, una regione segnata — nel bene e nel male — da oltre un secolo di estrazione mineraria. Le colline e le valli, aride e scolpite dal tempo, raccontano una storia antica: quella della Gola di Selja, scavata nei secoli dalle acque, che ci ha regalato scorci mozzafiato su pareti stratificate, grotte naturali e i resti di impianti dimenticati. Uno di quei luoghi dove il paesaggio non si osserva soltanto: si sente.
Abbiamo attraversato i tre villaggi che formano un perfetto triangolo sulla mappa — Métlaoui, Moulares e Redeyef — non come semplici punti geografici, ma come tappe di una narrazione iniziata alla fine dell’Ottocento. È stato lì che abbiamo ascoltato il racconto di Karim, che con passione ci ha spiegato come tutto sia cominciato nel 1885, quando il geologo francese Philippe Thomas riconobbe per primo la ricchezza del sottosuolo tunisino. Da allora, le miniere di fosfato hanno modellato l’economia, le infrastrutture, la vita stessa di intere generazioni.
Oggi, ci diceva Karim, quei treni che vedemmo passare lenti nella valle, continuano a trasportare il “tesoro bianco” verso i porti del Mediterraneo. Intanto, la Gola di Selja si è trasformata in meta per viaggiatori, escursionisti e speleologi, che vengono qui per camminare sul confine tra natura e archeologia industriale. Per noi è stata una tappa intensa, inattesa, che ci ha fatto scoprire una Tunisia meno turistica, ma più autentica, dove anche il rumore di una miniera diventa parte di un paesaggio che racconta.
Il motore romba deciso mentre lasciamo alle spalle l’asfalto. Davanti a noi si apre la Pista Rommel, un nastro di sabbia e roccia che si snoda tra canyon, palmeti e silenzi assoluti. È come entrare in un altro tempo: lo scenario è immobile, ma dentro senti tutto muoversi. Le ruote graffiano il terreno, il sole picchia sulla visiera, il cuore batte forte, non solo per la velocità, ma per la bellezza selvaggia che ci circonda. Siamo partiti presto, prima che il caldo diventasse fuoco. La guida apre la strada, noi dietro, in fila, come un piccolo plotone di anime affamate di avventura. Ogni curva è polvere, ogni duna una sfida, ogni sosta una foto nella memoria. Qui, dove un tempo passavano i soldati di Rommel, oggi passano motociclisti alla ricerca di qualcosa che non si può spiegare.
In nostro viaggio in moto continua verso un’oasi di montagna: Chebika, l’antico Add Speculum (“Speculum” significa “specchio”). Si trova lungo l’Imes Tripolitanus, di fronte alla catena montuosa delle Imes. Guardate che spettacolo esulta Kamir: è probabilmente l’oasi di montagna più bella, un vero paradiso a terra. Nel villaggio berbero, abbandonato a seguito dell’alluvione del 1969, si notano ancora le rovine delle antiche case, mentre gli abitanti si sono trasferiti nella nuova Shibika, poco distante. Poco oltre si apre un suggestivo canyon, che ha fatto da set al film Il paziente inglese. Tra le meraviglie di Chebika c’è anche una fresca sorgente: la stessa che abbiamo visto nella prima oasi di Mides e nella seconda, Temerze, dove abbiamo pranzato ci ricorda Kamir. L’acqua scorre giù dalle montagne algerine, lungo il corso del Wadi el Hanga, e alimenta un ingegnoso sistema di irrigazione che dà vita a campi e giardini rigogliosi. Infine, esulta Kamir, “non perdete la cascata che si getta nel canyon”: un quadro di natura intatta e suggestiva. Chebika, è un’oasi di storia, bellezza e vita ancestrale.
Da Tozeur, porta d’ingresso al deserto tunisino, abbiamo imboccato la pista verso Ong Jmel. Il nome stesso del luogo – “Ong Jmel” – deriva da una roccia solitaria che emerge tra le dune, plasmata dagli agenti atmosferici in modo così sorprendente da somigliare al collo di un cammello: “Ong” in berbero significa appunto “collo”, mentre “Jmel” è “cammello”. Una piccola meraviglia geologica che dà il benvenuto ai visitatori e ispira subito meraviglia. Il paesaggio è un susseguirsi di dune di sabbia sottile – le “sapie” – che rendono impossibile l’accesso con veicoli non leggeri: le motociclette devono fermarsi ai margini e proseguire a piedi, tra onde di polvere dorata e silenzi profondi.
Proprio qui, in mezzo a questa quiete sospesa, si apre il set cinematografico di Star Wars: l’antica città di Mos Espa. Tra riproduzioni di edifici desertici e insegne sbiadite, si respira ancora l’atmosfera del film, come se i protagonisti potessero spuntare da un momento all’altro dietro un’arena di sabbia. Il nostro itinerario ci ha portato fin qui procedendo da Nefta, celebre per le sue oasi di pianura dove palme da dattero e acqua sorgiva creano un’oasi verdeggiante in contrasto con l’aridità circostante. Lungo la pista abbiamo attraversato villaggi berberi, antichi ksar fortificati e campi polverosi, fino a raggiungere la solitudine di Ong Jmel. Ma il deserto offre sempre sorprese: tornando sui nostri passi, vi condurrò in un’altra oasi straordinaria promette Karim, la sola al mondo ad avere la forma di un grande cestino.
Si chiama “La Corbeille” – in francese “il cesto” – e si apre come un anfiteatro naturale di palme e rigogliosa vegetazione, circondato da alture rosate. Qui l’acqua sgorga copiosa, formando canali e bacini dove la vita fiorisce tra le ombre fitte delle fronde: un piccolo paradiso ritagliato nella sabbia, un dono inatteso nel cuore dorato del Sahara. Quando ho sentito parlare del Lago Salato “Chott el Jerid”, non avrei mai immaginato di arrivarci in moto; eppure eccomi lì, con il rombo del motore che si fonde al silenzio irreale del Chott. Partito da Tozeur, la mia moto ha inghiottito in fretta gli ultimi chilometri di strada rocciosa. Il sole si alzava a stento sull’orizzonte, disegnando lunghe ombre rosa sulle dune vicine, mentre riscaldavo il motore con l’eccitazione di chi sta per compiere qualcosa di straordinario. Arrivato alla sponda, mi si è aperto davanti un mare di sale: il bianco accecante si confondeva con l’azzurro pallido del cielo, creando un orizzonte senza fine. Più avanti, il lago si consolidava sotto le ruote: uno specchio di cristalli talmente denso da poter essere percorso in moto. “Pronti?” ha chiesto Dario, il nostro capo scuderia, mentre ci allineavamo sulla sottile striscia di sale che segna il confine fra terra e deserto. Nico, sulla sua Honda, ha risposto con un cenno deciso. Ho sentito il cuore battere all’impazzata: tagliare quel paesaggio lunare a due ruote sembrava un’impresa da film.
Abbiamo aperto il gas all’unisono. Prima un sobbalzo, poi quattro ruote che mordono il sale e ci spingono in avanti. Il rombo dei motori rimbombava sul lago come un tuono lontano. Ho sentito l’aria pungente sul viso, il sale sfrigolare attorno ai pneumatici e, sotto di noi, una superficie così solida da sembrare una pista infinita. A ogni curva il panorama cambiava: l’orizzonte si piegava, le dune rosate alle nostre spalle riflettevano una luce magica. Ci siamo lasciati andare in un’esaltante “volata bianca” di qualche chilometro, tenendo il gas aperto e assaporando l’adrenalina pura. Nel casco il paesaggio si deformava e riprendeva vita, trasmettendomi la sensazione di essere sospeso tra terra e cielo, avvolto solo da moto e luce. Quando Dario ha alzato la mano per segnalare di rallentare, abbiamo mollato il gas. Ci siamo fermati fianco a fianco, spento i motori e assistito al silenzio ancora più potente del rombo appena svanito. Davanti a noi, il sale, che si estende per 4.600 km, interrotto soltanto dalle deboli tracce dei nostri pneumatici. Chott el Jerid è il più vasto dei tre bacini salati – insieme a Chott el Gharsa e Chott el Feges – ma in quel momento ci è sembrato unico, intimo, come un segreto condiviso con le nostre moto. Con il sole ormai alto, abbiamo scattato qualche foto davanti a un bus abbandonato e assaporato la consapevolezza di aver raggiunto il confine estremo del deserto. Poi, uno dopo l’altro, abbiamo riallacciato i caschi e riacceso i motori: la strada per il prossimo campo tendato ci aspettava, ma in quella corsa sospesa, fra sale e luce, avevamo già inciso nella memoria un ricordo indelebile.
Karim Jaafar, il nostro instancabile amico e guida, ci ha spiegato che il sale del lago non è commestibile perché privo di iodio. Ci ha raccontato dell’accordo tra Tunisia e Francia: ogni inverno il sale di Chott el Jerid viene esportato in Europa dell’Est per spargerlo sulle strade e sciogliere la neve. Poi ci ha fatto notare l’unica zona dove crescono dune di sabbia “pietrificata”: Dbepsha (e, in misura minore, Fatnasa), proprio ai margini del lago, con formazioni rocciose tinteggiate da strati minerali unici. Subito dopo ci siamo spostati a Souk el-Ahad “mercato della domenica” piccolo villaggio del governatorato di Kebili, un tempo centro anche del commercio degli schiavi. Il suo nome deriva dal vento “Ghibli” che soffia incessante in queste pianure. Qui sgorgano più sorgenti termali, ma la più profonda raggiunge gli 80 °C: per renderla utilizzabile per l’irrigazione, hanno avvolto le condutture in legno di palma che funge da radiatore, raffreddando l’acqua finché diventa tiepida, perfetta per nutrire le oasi del Sahara e le pianure circostanti.
Ci spostiamo verso Douz, la “porta del deserto” e ingresso al vasto Erg orientale — “erg” significa deserto di dune bianche — fino al celebre campo tendato. Il sole, ormai alto, disegna ombre decise sulle creste sabbiose mentre, uno dietro l’altro, percorriamo i chilometri di sabbia battuta che separano Chott el Jerid da Ksar Ghilane. All’ingresso di Ksar Ghilane, il pulviscolo dorato si trasforma in un tappeto incandescente sotto le ruote. Ci guardiamo e ridiamo: l’asfalto è un ricordo, le moto respirano aria di Sahara. In pochi minuti raggiungiamo il nostro campo tendato, un’oasi di teli bianchi aggrappati al deserto, adagiata tra dune fragili e silenziose. Scendiamo in un coro di “uff!” e “ah!” mentre togliamo i caschi: le tende, grandi quasi quanto piccoli lodge, ci accolgono con materassi spessi, cuscini ricamati e coperte di lana berbera. Ogni abitacolo è illuminato da luci soffuse e lampade di ottone, con una veranda che si apre sulle dune che abbracciano l’orizzonte. Srotoliamo i bagagli, spegniamo i motori e lasciamo che il vento porti via l’ultimo granello di sale dai nostri caschi. Davanti a noi il deserto diventa teatro: in molti già allestiscono il “salotto” su tappeti berberi. Il profumo del tè alla menta danza nell’aria, mescolandosi all’odore di sabbia e legno bruciato.
Nel pomeriggio troviamo il tempo per immergerci nel verde vivo delle palme di Ksar Ghilane. Il contrasto è stupefacente: un polmone di palme da dattero e acacie circonda una sorgente termale fumante, proprio nel cuore del Sahara. Ci concediamo un bagno rigenerante, lasciando che l’acqua calda sciolga la fatica della giornata, mentre intorno a noi le dune, alte e sinuose, si stagliano come guardiani silenziosi di questo miraggio verde. Subito dopo, ci lanciamo in un’avventura ancora più adrenalinica: due ore di giro in quad tra le dune, sfrecciando su creste dorate e immergendoci nel silenzio assoluto del deserto, con solo il rombo dei motori a scandire il tempo. Quando il sole inizia a scendere, impariamo il cerimoniale: seduti su cuscini bassi, sorseggiamo tè scuro e zuccherato mentre il cielo esplode di arancio e porpora.
Poi, spostiamo lo sguardo al buio che avanza: milioni di stelle cadono sopra di noi, riflettendosi nel sorriso di ognuno. La cena è un banchetto semplice e perfetto: couscous con verdure di stagione, tajine di dromedario profumato al cumino e coriandolo, datteri freschi e mandorle tostate. La vera magia però arriva con la cottura del pane sotto la sabbia, un rito antico che ci lascia in silenzio ad ammirare il fuoco che arde piano, mentre il calore del deserto trasforma l’impasto in pagnotte fragranti, insaporite da un leggero sentore di terra e carbone. Il profumo delle spezie e del pane appena sfornato si alza nella notte, invitandoci a racconti di viaggio e risate che non finiscono mai. Sotto la volta del cielo sahariano, realizzo che la vera avventura non è solo correre sulle moto dentro un lago di sale, ma arrivare fin qui, nel cuore del silenzio, e sentirsi parte di un deserto vivo. Domani ci attendono nuove piste, altre oasi, ma stanotte rimarremo qui, in questo campo tendato a Ksar Ghilane, con la sabbia che scrive tracce di moto intorno alle tende e il deserto che ci ha accolti come vecchi amici.
Da lì ci addentreremo oltre il confine tra deserto di sabbia e deserto roccioso, in un paesaggio quasi lunare: visiteremo i Granai, detti anche Xur, custoditi tra le pietre. Poi faremo tappa al villaggio berbero di Matmata, famoso per le sue case trogloditiche scavate nella roccia. Successivamente risaliremo la catena montuosa del Djebel Dhahar, che domina l’orizzonte e segna l’addio al deserto roccioso prima di scendere verso la costa. Questa sera dormiremo a Sfax, seconda città della Tunisia e vivace capitale industriale. Alcuni di noi conoscono già l’emozione della prima notte sotto le tende fra le dune, ad Alufo—“cinghiale” in lingua locale—dove questo animale è ancora presente nei vasti territori del sud tunisino, punteggiati dai granai berberi. Siamo tra i governatorati di Médenine e Tataouine: quest’ultima, città più antica della Tunisia, ha dato il nome al pianeta di Star Wars, Tatooine. Un tempo qui esistevano oltre 200 granai, costruiti dalle tribù berbere tra il IX e il XIX secolo; oggi ne rimangono visitabili quasi 60.
I granai medievali a più piani (fino a quattro) fungevano sia da depositi che da rifugi difensivi, mentre quelli costruiti in epoche più pacifiche si ridussero a un solo piano. Ogni tribù, specializzata in un raccolto diverso, caricava in primavera le carovane—i “caravell sarai”—dirette verso la fertile valle di Majerda (l’antica Bagrada romana). Il “chammesa”, ovvero il quinto del raccolto, costituiva il tributo conservato nel granaio, chiamato localmente xar o xur. I soffitti dei vari piani erano sorretti da travi di palma, i cui tronchi venivano immersi nelle saline e poi essiccati al sole, rendendoli straordinariamente resistenti. Le famiglie berbere erano semi-nomadi ma, grazie al protettorato, ogni villaggio disponeva di una scuola elementare e di un dispensario medico gratuiti. Il granaio più celebre è Ksar Hadada, oggi trasformato in albergo dopo che qui, nel 1997, furono girate scene de “La Minaccia Fantasma” come Mos Espa; altri set si trovano a Nefta, Uled Sultan e Xur Juema. Gli Imazighen, i “liberi” per eccellenza, si distinguevano per i tatuaggi tribali e per l’architettura fortificata dei loro granai. Infine, la catena del Djebel Dhahar—in Libia nota come Jabal Nafusa o Gbenafusa—ospita ancora villaggi berberi, granai e case trogloditiche. Sono testimonianze nascoste, quasi fortezze di pietra nel cuore del deserto, che raccontano secoli di resilienza, scambi e continuità culturale. Superato il vasto Erg orientale e il campo di Ksar Ghilane, ci immergeremo nell’erg roccioso, un vero “deserto lunare” di pietra e crepacci. Tra le colline brulle incontreremo Tugen, l’unico villaggio berbero di pianura, in gran parte abbandonato dopo l’alluvione del 1969. Le poche case ancora abitate si affacciano sulla strada principale, riconoscibile dalla bandiera tunisina che sventola al vento: qui, come in ogni villaggio berbero, storia e modernità convivono nella scuola elementare e nel dispensario, fedele al suo ruolo di presidio sanitario. Karim ci spiega che siamo nel governatorato di Gabès—l’antica Taikabès—dove il deserto e il mare si incontrano in un’incredibile sinfonia di mondi.
In Tunisia esistono tre tipi di oasi: saline, come i grandi chotts che abbiamo attraversato; montane, come quelle visitate il secondo giorno; e infine le oasi di mare, come qui attorno a Gabès. Siamo a soli 42 chilometri dalla costa e in lontananza intravediamo già il luccichio del Golfo di Gabès: un vero paradiso a terra, dove palme e ulivi si mescolano alle acque azzurre. Mentre camminiamo lungo i resti delle antiche mura e ammiriamo gli alberi piantati per proteggere il villaggio dalle piene, percepiamo quanto questo angolo remoto rappresenti il punto d’incontro di tre mondi: il deserto roccioso, il verde delle oasi e l’azzurro del mare. Ed è sempre Karim, con i suoi racconti, a farci comprendere il senso profondo di ogni luogo, trasformando ciò che vediamo in emozioni che porteremo con noi per sempre. Proseguiamo verso Matmata, un villaggio unico al mondo dove le case non si costruiscono, ma si scavano nella roccia. Qui, nella catena montuosa del Djebel Dhahar, i trogloditi hanno trasformato la pietra viva in dimore arieggiate e sorprendentemente fresche, perfette per difendersi dal caldo torrido dell’estate.
Appena arrivati, attraversiamo il cortile scavato nella montagna: la prima cosa che colpisce è il pozzo, sempre lì, davanti alla porta, fonte vitale d’acqua. Accanto si apre la tabouna, il forno tradizionale scolpito nello stesso strato roccioso, dove le donne berbere macinano il grano a mano fin dall’alba, impastano la farina e cuociono il pane fragrante che ha reso celebre Matmata persino a Parigi, dove molte panetterie artigianali sono ancora gestite da famiglie originarie di questo villaggio. Le case a corte, illuminate dalla calce bianca stesa sulle pareti per respingere i raggi del sole, offrono un contrasto straordinario con la pietra bruna: all’interno la temperatura rimane piacevolmente fresca anche quando fuori si superano i 50 °C. Non c’è bisogno di aria condizionata: basta scendere di qualche gradino, entrare nel “guscio” scavato nel cuore della montagna e lasciarsi avvolgere dal fresco naturale. In un angolo del cortile spicca un vecchio barile datato 1941 — memoria della Seconda Guerra Mondiale e della presenza del generale Rommel, la “Volpe del Deserto”, in queste vallate. Poco distante, un piccolo mausoleo con cupola verde, meta di devozione popolare, custodisce le reliquie di un marabutto venerato dagli abitanti: la Tuma e i santi custodi del villaggio. Sulle porte delle case, la mano di Fatima e il simbolo del pesce proteggono dal malocchio, segno della profonda spiritualità e delle antiche superstizioni che convivono con la vita quotidiana.
“Aslema!” ci accoglie con un sorriso la padrona di casa, invitandoci a entrare. Entriamo nel nucleo centrale, dove intorno al focolare scopriamo pentole e anfore in terracotta, custodi di acqua fresca e scorte di olive. Non c’è frigorifero: qui tutto si conserva con saggezza, sfruttando la frescura delle grotte e le proprietà isolanti della pietra. Mentre la signora prepara il pane berbero, affondando le mani nell’impasto e intonando canti antichi, capiamo che Matmata non è solo un luogo da visitare, ma un mondo da vivere: un luogo dove la tradizione si intreccia alla geologia, dove la comunità si stringe intorno a un pozzo e a una tabouna, e dove ogni pietra racconta la storia di chi ha scelto di vivere scavando per i vivi e celebrando i morti nel cuore della montagna. Con questo ricordo scolpito nella mente, salutiamo Matmata e ci prepariamo a proseguire il nostro viaggio, portando con noi l’eco delle risate delle donne al lavoro, il profumo del pane appena sfornato e il fresco abbraccio di una casa trogloditica che sembra sbocciare dal cuore del deserto.
Ci troviamo alla periferia di El Jem, l’antica Tisdrus, fondata da popoli di origine libica e punica con il nome di Taparora, poi romanizzata nel II–III secolo d.C. in Thysdrus, infine divenuta El Jem sotto l’imperatore Massimino il Trace nel 238 d.C. Questa città faceva parte del territorio di Gabes (Tacapes per i Romani) e delle sue delegazioni berbere come Temesred e Tuggen. Il nostro obiettivo è l’enorme anfiteatro di El Jem, terzo per grandezza nell’Impero Romano – dopo il Colosseo di Roma e l’anfiteatro di Capua – con i suoi 148 metri di diametro e 123 di profondità. Ma non è il primo costruito qui: poco fuori sorge l’Anfiteatro Redumentare, del I secolo d.C. Invece quello che vediamo ora risale al III secolo e si distingue per l’estensione della cavea su tre ordini di gradinate e per la complessità delle gallerie sotterranee. Varcata la maestosa facciata, notiamo subito i tre corridoi concentrici, larghi 32 metri, un tempo collegati da volte a botte fino all’orchestra semicircolare – diversamente dal teatro greco, accolito dai Romani, che qui la trasformarono da forma circolare a semicerchio – e ai “vomitoria”, le uscite laterali. L’arena, coperta di sabbia finissima, è ancora intatta: pane e spettacolo, come suggeriva il motto “Panem et Circenses”. Scendiamo nel sottosuolo, dove le gabbie dei bestiari e dei gladiatori erano calate tramite botole, proprio sopra l’impluvium, il pozzo centrale che raccoglieva l’acqua piovana. Qui il contrasto con il Colosseo è netto: a Roma le strutture sotterranee sono quasi del tutto scomparse, ma a El Jem le volte, i corridoi e le celle sono ancora presenti.
Osserviamo i resti delle canalette e dei fori nel muro usati per tenere tese le tende sulle gradinate, e i blocchi di pietra arenaria proveniente dalle cave a 35 km di distanza. I Romani amavano questi materiali per la loro resistenza e per il sistema costruttivo a blocchi regolari, chiamato opus quadratum. Camminando tra le gradinate, partendo dalla summa cavea per gli schiavi, passando per la media cavea della plebe, fino alla prima cavea riservata ai notabili, capiamo la stratificazione sociale del pubblico romano. I mosaici ritrovati in zona raffigurano combattimenti, mentre non si conservano mai tracce di naumachie (battaglie navali), che qui non si svolgevano. Prima di salutare l’anfiteatro, ricordiamo la leggenda di al-Karīna la Kahina, regina berbera che nella seconda metà del VII secolo avrebbe usato i passaggi sotterranei per sfuggire ai Saraceni e forse raggiungere Salakta, l’antica Thapsus, oggi nota per le sue catacombe. Tra un foto-scatto e l’altro, già immaginiamo il prossimo festival internazionale di musica sinfonica, che trasforma ogni estate questo luogo in un palcoscenico unico: un omaggio alla memoria di un impero e alla forza del paesaggio tunisino.
Siamo a Mahdia, sulla pittoresca costa del Sahel tunisino. Questa cittadina, protesa sul mare da tre lati, sorge su una penisola che un tempo i Fenici chiamavano Goumi. In epoca punica era un importante scalo commerciale, poi, con la romanizzazione del II–III secolo d.C., divenne Thysdrus e infine El Jem sotto l’imperatore Massimino il Trace. Davanti a noi si apre il porto punico di Mahdia, ancora oggi cuore pulsante del commercio marittimo: domani lo confronteremo con quelli di Cartagine, studiando sia i resti del porto militare, sia le banchine del mercantile. Ma per ora restiamo qui, ad ammirare le imbarcazioni tradizionali e gli antichi magazzini affacciati sull’acqua azzurra. Alle nostre spalle, sulla collina, si staglia una massiccia fortezza ottomana del XVI secolo: il Borj el Kebir, costruito per controllare l’accesso al golfo. Poco più in basso, il varco d’ingresso alla medina storica, la porta chiamata Skifa el Kahla, apre sulla città vecchia, nota anche come “Bebzwila” nella parlata locale.
Mahdia custodisce tracce della sua gloria fatimide: qui, sotto il califfato sciita, nel XII secolo, la città divenne la capitale del Maghreb, ribattezzata al-Mahdia in onore del califfo Abd Allah al-Mahdi. La moschea che sorge nel cuore della medina, unica nel suo genere per l’assenza di un minareto tradizionale, è un omaggio a quel passato glorioso: la Grande Moschea di al-Mahdi, silenziosa e solenne. Scendendo verso la riva, non possiamo non notare il cimitero marittimo: una distesa di lapidi segnate dal sale, un luogo di raccoglimento per le vite spezzate in mare. Tornati in città, superiamo la Porta della Conquista e ci inoltriamo tra i vicoli dove un tempo si radunavano i mercanti d’oro e d’olio. Ancora oggi, lungo la strada principale, vediamo solo ulivi a perdita d’occhio: testimoni silenziosi dell’economia locale.
Il quartiere dei pescatori, chiamato Borj er-Ras, ci racconta storie di reti e lampare: la pesca del pesce spada in notturna, antica tradizione importata anche dai siciliani e dai maltesi che un tempo qui si stabilirono. In loro ricordo, una via si chiama Mazzara del Vallo, un’altra Italia, e in una vecchia casa al porto si dice vivessero i nonni di quegli emigrati. Tra le mura ottomane e i vicoli punici, incontriamo un piccolo marabutto, il santuario di Sidi Jaber, meta di pellegrinaggi devoti. Poco distante, la statua del sultano Yusuf, fondatore della dinastia fatimide in Africa, ci ricorda l’importanza strategica di questa città. Concludiamo la nostra esplorazione seduti su una terrazza affacciata sul mare: davanti a noi, spiagge di sabbia dorata e un mare limpido invitano al bagno. Il ristorante sul lungomare ci aspetta con piatti di pesce fresco e couscous speziato. Mahdia, antica capitale e porto punico, ci ha svelato leggende e architetture, ma soprattutto ci ha regalato il sapore autentico della storia che vive accanto alle onde.
Sulla costa del Sahel tunisino si stagliano Sousse, la “capitale” regionale, Monastir e Mahdia: tre tappe fondamentali di questo itinerario marinaro lungo 1.300 km di litorale anticamente punico. Monastir, anticamente Ruspina secondo alcune fonti, deve il suo nome al suo celebre Ribat – fortezza-monastero che fungeva contemporaneamente da presidio militare contro le incursioni bizantine e da centro di studi teologici (“Morābitūn”). Proprio come Rabat in Marocco – o l’omonima Monastir sarda – anche qui “Ribat” significa letteralmente “monastero” o “fortezza”: un edificio simbolo che dà il nome alla città. A poche decine di chilometri, nella piccola Lemta (l’antica Leptis Minor, sorella minore di Leptis Magna in Libia, patria di Settimio Severo), troviamo un altro Ribat, di dimensioni più ridotte ma simile per funzioni e stile.
Il Ribat di Monastir, tuttavia, occupa un ruolo unico: al suo interno ospita un ricco Museo Islamico in cui sono esposte stele votive dell’epoca araba, preziosi manoscritti e perfino contratti di matrimonio risalenti all’era ottomana, scritti nelle eleganti grafie rihana e cufica. Qui, tra le sue torri di controllo e i cortili severi, è sepolto anche Habib Bourguiba, “Padre della Patria” tunisina. Costruito in luminoso marmo proveniente dalla Spagna e illuminato all’interno da raffinati lampadari di vetro di Murano, il Ribat di Monastir è uno dei pochi monumenti in Tunisia ad offrire ingresso gratuito. Entrarvi significa percorrere i secoli, dal IX fino al XVI, attraversando un luogo in cui la storia militare, la devozione religiosa e l’arte calligrafica si fondono in un’unica, straordinaria architettura.
Siamo davanti al mausoleo di Habib Bourguiba, il “Padre della Patria” tunisina, un presidente che ha dedicato tutta la sua vita al servizio dello Stato. Laureato in Giurisprudenza a Parigi nel 1934, Bourguiba fu un politico laico e visionario: promosse il riconoscimento del diritto di voto alle donne tunisine già nel 1957, un anno dopo l’indipendenza, rendendo la Tunisia la prima nazione araba a garantire alle donne il suffragio e la patente di guida. Sotto il suo governo, l’istruzione e la sanità divennero i due pilastri fondamentali della società: ogni villaggio berbero beneficiò di scuole gratuite e dispensari medici, trasformando progressivamente i seminomadi in cittadini garantiti dallo Stato. I diplomati con i voti migliori venivano inviati dallo stesso Bourguiba a completare gli studi in Francia, Germania o persino nell’Università per Stranieri di Perugia, tutte spese coperte dal bilancio pubblico. Si racconta che, invitato da Tito nella Jugoslavia degli anni Cinquanta, Bourguiba rifiutò di sedersi a tavola finché il suo popolo fosse rimasto nella fame, chiedendo aiuti umanitari invece di ospitalità. In quell’epoca, grazie a lui, i tunisini potevano viaggiare in Europa senza alcuna restrizione, un privilegio raro nei Paesi del Golfo, allora monarchie petrolifere ancora in formazione.
Negli anni Settanta, a Bourguiba fu proposta perfino una federazione tra Tunisia e Libia, rifiutata da nonostante la ricchezza petrolifera libica. Rimase celebre la sua battuta: “Come posso godere del convivio se il mio popolo ha fame?” Durante il suo mandato la “maturità tunisina” – detta Bac Tunisien – divenne sinonimo di eccellenza: i francesi scherzavano definendola l’esame più difficile dell’intera ex-colonia. E se oggi la poligamia è ancora prevista dal codice, fu proprio Bourguiba a limitarla, tutelando così i diritti delle donne e prevenendo quel “quattro suocere” che l’antico costume ottomano avrebbe imposto. Bourguiba, che considerava la Tunisia “la casa di tutti i tunisini”, non fu mai corrotto: rifiutò onori personali e privilegi, mantenendo sempre uno stile di vita sobrio. È ricordato non solo per l’indipendenza conquistata, ma soprattutto per aver costruito, passo dopo passo, una nazione moderna, aperta e capace di guardare al futuro con audacia.
Arriviamo a Tunisi, alla porta principale della Medina, conosciuta come Beb el Bahr – “porta del mare” – da cui parte la via centrale che attraversa il dedalo di vicoli. La Medina è un vero labirinto, spiega Karim, ma seguendo questa strada principale si arriva direttamente alla piazza della Grande Moschea, la più antica di Tunisi. Si chiama al-Zaytūna (“dell’Ulivo”) ed è da non perdere: fondata nel IX secolo, è un gioiello di storia e arte islamica nel Nord Africa. Proprio di fronte alla Zaytūna si apre il vivace quartiere turco, riconoscibile dai due minareti ottagonali delle moschee ottomane. Qui sorgono i souk – mercati coperti organizzati per prodotto: c’è il souk az-Zirā‘a (dedicato alle spezie), il souk al-Barrādīn (dedicato al cotone e ai tessuti) e molti altri. In questi banchi si trovano ancora oggi le essenze vegetali – linfa di piante aromatiche pura – che riforniscono le più celebri profumerie di Grasse in Francia, grazie a un accordo commerciale che risale a decenni fa.
Tra le “madrase”, le antiche scuole coraniche, spicca la Madrasa al-Slimāniyya, aperta al pubblico e ideale per una sosta fotografica: i suoi cortili e gli archi decorati ricordano il mausoleo di Sidi Sahab a Qayrawān. Proseguendo, incontrerete il souk al-Birkā‘ – il mercato dei gioielli d’oro e d’argento –, dove le spose tunisine acquistano i loro preziosi doni nuziali, e il souk al-Aslān “dei leoni”, dedicato a oggetti d’arte e souvenir. Da Beb el Bahr, basta un passo per ritrovarsi di nuovo tra le strette vie della Medina: seguite il percorso che vi ho indicato e lasciatevi guidare dal chiacchierio degli artigiani e dal profumo di spezie e incensi. Ogni angolo racconta secoli di cultura, commercio e tradizioni, e vi condurrà, passo dopo passo, in un viaggio senza tempo nel cuore più autentico di Tunisi.
Ogni giorno è stato un crescendo di meraviglie: Cartagine ci ha accolto con le rovine puniche, templi scolpiti nella roccia e mosaici che raccontano secoli di commerci marittimi. A Monastir abbiamo scoperto il Ribat, fortezza-monastero arroccato sul mare, le sue torri miliziane, i cortili ombrosi dove i “morabitun” studiavano teologia. All’interno, un museo islamico ospitava contratti nuziali ottomani, stele votive e pergamene in cufico, un tesoro insospettato nel cuore dell’Africa. Ogni pasto era un viaggio: couscous fragrante, zuppe speziate, pesce grigliato sulle braci, dolci al miele e mandorle. Non abbiamo mai mangiato due volte la stessa cosa: un giorno tajine di agnello con prugne, il successivo insalata di datteri e formaggi di capra, poi pasticceria tunisina con baklava e makroud. E perfino le pause caffè — un caffè alla turca aromatizzato con cardamomo — diventavano momenti di condivisione intima, chiacchiere tra amici e risate nitide.
Non dimenticheremo mai la sensazione di sicurezza e cura: ogni tappa è stata magistralmente coordinata dall’organizzazione e da Karim, che con la sua esperienza ci ha guidato attraverso sentieri nascosti, mercati vivaci, ristoranti autentici, spiagge appartate e panorami da cartolina. Dario e Nico, con il loro spirito instancabile, hanno reso l’atmosfera di gruppo ancora più calorosa, organizzando sfide fotografiche al tramonto e brindisi sotto le palme.
In Tunisia, ciò che colpisce davvero – oltre ai paesaggi mozzafiato e alla storia millenaria – è il saluto costante della polizia a ogni posto di controllo, praticamente in ogni città che abbiamo attraversato. Sono presenze discrete ma rassicuranti, sempre accompagnate da un sorriso e da un cenno di benvenuto. Un’accoglienza che non è solo forma, ma sostanza: abbiamo trovato supporto spontaneo, attenzione autentica verso i turisti e una disponibilità che non necessita richiesta. È una presenza silenziosa ma concreta, che ti fa sentire al sicuro e accolto in ogni angolo del Paese. È un’esperienza di ospitalità che merita davvero di essere raccontata.
E mentre le nostre moto ci portavano da un’oasi all’altra – da Douz a Tozeur, da Tataouine a Sfax- abbiamo sentito crescere dentro di noi un legame indissolubile con questa terra: la Tunisia ci ha raccontato storie di resilienza, di cultura millenaria, di umanità e generosità. Siamo partiti per un semplice tour, ma siamo tornati con l’anima carica di avventure e il desiderio di condividere ogni dettaglio di questa esperienza. Alla prossima avventura, inshallah: tutto è già pronto ad accogliere il prossimo gruppo che raggiungerà a Tunisi, verso ottobre. Quando la squadra è affiatata e il cuore è aperto, non c’è confine che possa fermare la voglia di esplorare. Grazie a tutti, a chi ha progettato e a chi ha camminato con noi. La Tunisia ci aspetta, sempre, con un sorriso genuino e un tè alla menta freddo.
Dario Di Mauro nel ringraziare tutti, ha ricordato alcune tappe della straordinaria avventura! La Tunisia non è un semplice viaggio, è un’esperienza totale: parti dai centri storici, esplori oasi montane e canyon da sogno al confine con l’Algeria, accarezzi la sabbia infinita del Sahara nel silenzio delle dune, e risali al Mediterraneo, tra vivaci locali e tramonti sul mare. In un unico itinerario abbiamo respirato contrasti mozzafiato – ricchezza e povertà, tradizioni millenarie e movida notturna -, alternando momenti di puro relax a bordo piscina, risate a bordo quad tra le creste dorate, serate conviviali nei mercatini e piatti tipici che raccontano secoli di storia. Ogni curva offre una nuova emozione e ogni tappa è un pezzo di cuore lasciato in questa terra magica.
E adesso la grande novità: a ottobre SI RIPARTE! Grazie al supporto “5 stelle” dell’organizzazione ci saranno furgoni logistici a disposizione, bagagli sempre al sicuro e, per la prima volta, la possibilità di far salire a bordo gli amici non motociclisti. Chiunque voglia vivere la Tunisia potrà unirsi al gruppo “Sand’s Dreamers”, sul pulmino di lusso, climatizzato, con guida al seguito: un modo unico per condividere l’avventura da vicino, anche senza casco. Questo tour è destinato al “sold out” in un lampo. Occasione da non perdere. Per vivere la Tunisia a 360°: paesaggi epici, strade da sogno, cultura autentica e divertimento senza fine vi aspettano. Inshallah, ci vediamo a ottobre… per scrivere insieme il prossimo capitolo di questa meravigliosa storia!