Negli ultimi cinque anni la Sicilia ha perso circa trentamila negozi di vicinato, con una media di seimila serrande abbassate tra Palermo e Catania. È un dato che si inserisce in un quadro nazionale ancora più pesante: in Italia, nello stesso periodo, sono spariti oltre 350 mila punti vendita, quasi un quinto del totale. Le cause principali sono note e intrecciate: da un lato la crescita inarrestabile dell’e-commerce, che in Sicilia è raddoppiato passando da 23.860 a 45.265 imprese digitali, dall’altro la perdita di potere d’acquisto delle famiglie che comprano meno e orientano le proprie scelte quasi esclusivamente sul prezzo più basso. L’effetto è sotto gli occhi di tutti, soprattutto a Catania, dove il tessuto commerciale si è trasformato rapidamente.
In via Etnea, un tempo vetrina di prestigio per le firme della moda e i negozi storici, oggi dominano bar, locali di street food, dolci tipici e spritz bar che hanno progressivamente sostituito boutique e attività identitarie, spinte anche dalla forza d’attrazione dei cinque grandi centri commerciali presenti nel territorio metropolitano. Strutture che hanno saputo diventare non solo luoghi di consumo ma anche di aggregazione sociale, rendendo ancora più difficile la sopravvivenza delle piccole botteghe. Un destino diverso ha conosciuto Corso Italia, oggi il “salotto buono” della città e punto di riferimento delle grandi griffe internazionali. Qui i marchi del lusso preferiscono affidarsi al franchising piuttosto che investire direttamente, lasciando la gestione a imprenditori locali. Una formula che assicura la presenza dei brand senza che le maison debbano rischiare in prima persona, ma che spesso si traduce in condizioni peggiori per i lavoratori. Non mancano denunce sul fronte dei salari: in alcuni casi il personale percepisce compensi quasi dimezzati rispetto a quanto avviene nelle grandi aziende strutturate, con carichi di lavoro più intensi e tutele ridotte.
“Ogni azienda che chiude porta con sé drammi familiari che rischiano di diventare sociali”, ha dichiarato Giovanni Felice, coordinatore regionale di Confimprese, sottolineando come dietro ogni negozio ci siano almeno quattro addetti. Si tratta dunque di migliaia di famiglie che hanno perso reddito e stabilità. Per Patrizia Di Dio, presidente di Confcommercio Palermo, “assistiamo a una crisi senza precedenti, soprattutto per i negozi di vicinato. Abbiamo chiesto alla Regione di introdurre nella prossima finanziaria misure che incentivino i consumi”. Tra le soluzioni avanzate c’è l’idea dei contratti di rete, un modo per unire più piccoli imprenditori e permettere campagne comuni di promozione o iniziative di e-commerce condiviso, così da contrastare la forza dei grandi player.
Al momento, i sei bandi regionali da 285 milioni di euro a valere sui fondi europei riguardano innovazione, digitalizzazione e riqualificazione energetica, ma non offrono sostegni diretti ai negozi di quartiere. Il governo siciliano sta valutando nuovi incentivi attraverso l’Irfis, con contributi a fondo perduto e prestiti agevolati, ma le associazioni di categoria temono che senza un piano organico il fenomeno della desertificazione commerciale continuerà. A Catania, come nel resto dell’Isola, ogni saracinesca abbassata non è solo la fine di un’attività economica, ma la perdita di un pezzo di identità urbana e sociale.