Messina, agguato davanti a un bar: Giuseppe, 16 anni, vittima innocente di una sparatoria

«Un delitto assurdo e spietato», così la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha commentato l’omicidio di Giuseppe Di Dio, il sedicenne ucciso per errore a Capizzi, piccolo centro dei Nebrodi in provincia di Messina. «Dolore e rabbia per una vita innocente strappata alla sua famiglia. Mi auguro che la giustizia sia rapida e severa verso i responsabili di questo orrore», ha scritto la premier sui social. Parole che risuonano in un Paese incredulo, scosso da un fatto che spegne all’improvviso il sorriso di un ragazzo perbene, travolto da una violenza senza senso.

Era sabato sera, poco dopo le 22.30, quando davanti a un bar di via Roma, nel cuore del paese, la folla di giovani e famiglie è stata improvvisamente travolta dal terrore. Un’auto si è fermata, un uomo è sceso impugnando una pistola e ha sparato almeno tre colpi verso la gente. Un proiettile ha colpito in pieno Giuseppe, che è morto durante il trasferimento alla guardia medica. Ferito anche un ventiduenne, per fortuna non in pericolo di vita. «C’erano bambini, famiglie, ragazzi che chiacchieravano – raccontano i testimoni – nessuno poteva immaginare una cosa del genere. Qui ci conosciamo tutti».

L’obiettivo, però, non era lui. Gli investigatori dei carabinieri di Mistretta, coordinati dalla Procura di Enna, hanno fermato un uomo e i suoi due figli: Antonio, 48 anni, Giacomo di 20 e Mario di 18. Sono accusati di omicidio, tentato omicidio, detenzione abusiva e ricettazione di armi. A sparare sarebbe stato Giacomo, già noto alle forze dell’ordine. Il padre e il fratello lo avrebbero accompagnato sul luogo dell’agguato. Recuperata e sequestrata la pistola, con matricola abrasa, mentre i militari stanno analizzando i bossoli e i filmati delle telecamere per ricostruire ogni dettaglio di quella notte di sangue.

«La nostra comunità è sgomenta e incredula – ha dichiarato il sindaco di Capizzi, Leonardo Giuseppe Principato Trosso. Conosco la famiglia del presunto omicida, persone con diversi precedenti penali. L’anno scorso erano stati indagati per aver dato fuoco alla caserma dei carabinieri, e due giorni fa erano stati controllati perché sospettati di possedere armi. Ieri sera poteva essere una strage». Il sindaco ha proclamato il lutto cittadino. La scuola di Troina ha ricordato Giuseppe con un momento di raccoglimento e un messaggio di dolore e speranza.

Giuseppe frequentava l’Istituto Alberghiero “Ettore Majorana” di Troina, in provincia di Enna. Ogni giorno percorreva trenta chilometri per raggiungere la scuola. «Ci stringiamo con profondo dolore attorno alla famiglia – si legge nel messaggio dell’istituto – Ricorderemo per sempre il suo sorriso. Tutta la comunità scolastica partecipa al vostro lutto». La dirigente scolastica, Mariangela Santangelo, ha scritto parole che spezzano il cuore: «Riposa in pace, tesoro. Sarai sempre nei pensieri e nei cuori dei tuoi compagni, dei tuoi professori, dei collaboratori scolastici e della tua preside». I compagni lo ricordano come «dolce, educato, sensibile e ironico», un ragazzo che sapeva farsi voler bene da tutti. Anche il presidente della Città Metropolitana di Messina, Federico Basile, ha espresso cordoglio: «Siamo di fronte a un episodio drammatico e inaccettabile – ha detto – che colpisce una famiglia e un’intera comunità. Confidiamo nel lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura affinché venga fatta piena luce sui fatti e i responsabili siano chiamati a rispondere delle proprie azioni». Basile ha voluto manifestare la propria vicinanza al sindaco di Capizzi e ai cittadini del paese, «colpiti da un lutto che non può e non deve lasciarci indifferenti».

Un sentimento condiviso anche dal sindaco di Troina, Alfio Giachino, che ha parlato di «una degenerazione che lascia addosso un terribile senso di impotenza e di fallimento collettivo». Parole che racchiudono il senso di smarrimento di una Sicilia che oggi piange un figlio innocente e chiede giustizia.

L’inchiesta della Procura di Enna è coordinata dai carabinieri della Compagnia di Mistretta. I fermati – Antonio (48 anni), Giacomo (20) e Mario (18) – sono accusati di omicidio, tentato omicidio, detenzione abusiva di armi, detenzione di arma clandestina e ricettazione. A sparare sarebbe stato Giacomo, già noto alle forze dell’ordine. L’arma recuperata una pistola con matricola abrasa, sequestrata per le analisi balistiche. I carabinieri stanno visionando i filmati di videosorveglianza e raccogliendo testimonianze per chiarire la dinamica. I tre indagati, secondo gli inquirenti, avrebbero raggiunto il bar in auto. Pochi istanti dopo, i colpi. Il padre e il fratello sarebbero rimasti in macchina durante la sparatoria. Tutti e tre sono stati sottoposti a fermo di indiziato di delitto.

Ma non è solo un problema di sicurezza o controllo del territorio. È un tema più profondo, che riguarda una società sempre più fragile, dove il rispetto, l’educazione e la capacità di gestire i conflitti sembrano essersi smarriti. Episodi come quello di Capizzi non sono solo il frutto di un gesto criminale, ma il sintomo di un malessere diffuso, che attraversa le famiglie, la scuola, i luoghi della vita quotidiana. Serve una risposta culturale, non solo giudiziaria: un ritorno al senso di comunità, alla cura dell’altro, all’educazione civica che troppo spesso rimane sulla carta.

Intanto, Capizzi si prepara ai funerali. Davanti al bar dove Giuseppe è stato colpito, la comunità ha lasciato fiori, candele e messaggi. Il paese, avvolto dal silenzio, si stringe nel dolore. In molti non riescono a trovare le parole per spiegare un gesto tanto crudele. Un’intera generazione si interroga sul perché di tanta violenza, mentre la Sicilia –  e con essa l’Italia – si ferma per ricordare un ragazzo di sedici anni che sognava di diventare chef e che la vita ha strappato troppo presto. Giuseppe Di Dio non era il bersaglio. Ma la pallottola che lo ha ucciso non ha colpito solo lui: ha ferito una comunità intera, e il suo nome resterà impresso come simbolo di ciò che non deve più accadere.

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Le persone coinvolte sono da considerarsi innocenti fino a sentenza definitiva di condanna, nel pieno rispetto del principio di presunzione di innocenza. Chiunque voglia esercitare il diritto di replica può farlo nei modi e nei termini previsti dalla legge.