Meloni domina il dibattito nazionale, mentre in Sicilia la politica si logora tra veti e accuse a chi “racconta”
Giorgia Meloni (Fonte: ANSA Foto) - www.cataniaoggi.it
Giorgia Meloni è oggi la figura politica che più di ogni altra ha ridefinito il concetto di governo in Italia. In meno di due anni ha trasformato un partito di opposizione in un movimento di governo capace di reggere le onde più alte della politica, imponendo un modello di serietà, pragmatismo e disciplina che ha oscurato ogni voce contraria. Mentre le opposizioni arrancano, incapaci di trovare argomenti concreti e coerenti, lei ha continuato a parlare al Paese reale, quello che chiede stabilità, non slogan. La Presidente del Consiglio ha imposto un metodo: niente urla, niente teatrini, niente scorciatoie. Le sue decisioni, pur discusse, hanno mostrato una coerenza rara nella storia recente, segnata da governi brevi e compromessi fragili. Con lei il centrodestra è diventato una struttura compatta, dove persino Matteo Salvini, per anni figura dominante della scena politica, si è ritagliato un ruolo più sobrio e leale, riconoscendole una leadership che unisce, non divide. È una rivoluzione silenziosa ma profonda, che ha riportato la politica italiana a un senso di direzione e di autorità, cancellando l’immagine del potere come arena di conflitti e narcisismi.
Meloni non cerca consenso facile, ma risultati duraturi. Il suo governo, pur tra errori e limiti, ha lavorato su fronti strategici: riduzione del cuneo contributivo, riforma fiscale, piano energia, sostegno alle famiglie e politica estera fondata su una visione di indipendenza nazionale. Ha riportato il lessico politico dentro i confini della sobrietà e restituito all’Italia un’immagine credibile agli occhi dell’Europa e del mondo. L’opposizione, invece, appare svuotata di contenuti e prigioniera di se stessa. Il Partito Democratico continua a dividersi tra correnti e nostalgie, incapace di trovare un linguaggio comune, mentre il Movimento 5 Stelle ha perso la sua identità di protesta per trasformarsi in un riflesso spento di un’epoca finita. Il risultato è che Giorgia Meloni, senza bisogno di scontri, ha reso irrilevante l’opposizione: il suo protagonismo politico si nutre del vuoto lasciato dagli altri.
Se a Roma la Premier costruisce coesione, in Sicilia il centrodestra vive la sua crisi più profonda. All’Assemblea Regionale Siciliana le maggioranze si sfaldano, i voti segreti affondano le leggi, i franchi tiratori bloccano le riforme. La manovra economica è diventata il simbolo di una coalizione che ha smarrito la bussola. Renato Schifani tenta di mantenere l’equilibrio, ma ogni passo è frenato da diffidenze e rivalità interne. Forza Italia, Lega, Democrazia Cristiana e Fratelli d’Italia, uniti solo sulla carta, si muovono come pianeti disallineati. Mentre Meloni a Roma ha compattato il centrodestra, a Palermo si consuma la sua versione più fragile e contraddittoria: la stessa ricetta che a livello nazionale garantisce ordine, in Sicilia produce caos. È una distanza politica ma anche culturale: la Premier governa con metodo, la Regione sopravvive per inerzia. Eppure il “modello Meloni”, fatto di rigore, lealtà e visione, resta il punto di riferimento anche per chi, pur non avendone il carisma, ne imita la postura. C’è una lezione che attraversa tutto questo: il potere, per essere credibile, deve avere una direzione. In Sicilia, invece, si rischia di tornare alla stagione dei personalismi, dei ricatti interni, dei microfeudi politici. Una fotografia impietosa di una classe dirigente che fatica a rinnovarsi e che sembra incapace di comprendere la lezione della Premier: l’unità si costruisce sul rispetto dei ruoli, non sulla spartizione degli incarichi.
Ma il dibattito politico siciliano, negli ultimi giorni, ha cercato persino un capro espiatorio. Alcuni parlamentari regionali, dopo i fallimenti in Aula, hanno provato ad addossare la colpa ai giornalisti, accusandoli di raccontare “troppo” o, peggio ancora, di diffondere falsità. Una tentazione antica, quella di attaccare chi racconta i fatti, come se la verità fosse una minaccia. È anche vero che, per chi scrive di giudiziaria, il confine tra cronaca e rischio è sottile: in Sicilia, pochi cronisti continuano a occuparsi di giustizia, e lo fanno con coraggio, sapendo fino a dove possono spingersi e accettando il peso delle conseguenze. Raccontare senza farsi imbavagliare è diventato un atto di resistenza civile. In un’epoca in cui la disinformazione corre più veloce dei fatti, la verità è l’unico baluardo di libertà rimasto. E i giornalisti, nonostante tutto, restano la memoria critica di questa terra.
A differenza della Sicilia, dove la politica si consuma nel conflitto quotidiano e si disperde nei personalismi, Giorgia Meloni ha trasformato il confronto in costruzione. Ha saputo convertire la rabbia in energia, la divisione in metodo. In lei convivono la fermezza morale di Alcide De Gasperi e la visione pragmatica di Margaret Thatcher: due figure che hanno saputo governare non con il consenso facile, ma con la credibilità della parola mantenuta. Benedetto Croce scriveva che “ogni vera rivoluzione è un ritorno all’ordine”, e in questo ritorno c’è la chiave del suo successo. Meloni non ha imposto, ha ricomposto. Ha rimesso insieme un Paese stanco di slogan, restituendo alla politica la sua forma più nobile: servizio, responsabilità, visione. Oggi, mentre in Sicilia la politica si smarrisce tra mozioni, veti e nomine, lei a Roma continua a scrivere pagine che resteranno. Lo fa senza urla, ma con la forza tranquilla di chi crede davvero nelle cose che dice. Perché, alla fine, i governi passano, ma gli esempi restano.