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Figli maggiorenni e mantenimento: quando scatta l’autosufficienza: il principio stabilito dalla Corte di Cassazione
La questione del mantenimento dei figli maggiorenni torna spesso sotto i riflettori, soprattutto in casi di separazione o divorzio. Non tutti sanno che il diritto all’assegno non termina automaticamente al compimento del diciottesimo anno di età, ma prosegue fino al raggiungimento dell’autosufficienza economica. Tuttavia, la giurisprudenza recente mostra una linea più rigorosa nei confronti dei giovani adulti che entrano nel mondo del lavoro.
Una sentenza fondamentale, la numero 40282 del 15 dicembre 2021, ha chiarito che il genitore è obbligato a mantenere il figlio solo fino a quando quest’ultimo non sia in grado di provvedere autonomamente a sé stesso. Dopo i 18 anni, il figlio deve impegnarsi attivamente per raggiungere l’indipendenza economica, frequentando corsi di formazione e inserendosi nel mercato del lavoro. Anche un contratto a termine viene considerato come ingresso nel mondo del lavoro e come indicatore di autonomia.
Una recente ordinanza della Corte d’Appello di Torino del 16 luglio 2025 ha chiarito ulteriormente il concetto di autosufficienza. Un figlio maggiorenne, laureato e titolare di Partita IVA, pur dichiarando un reddito basso di circa 700 euro lordi al mese, ha visto revocato l’assegno di mantenimento di 700 euro mensili più spese straordinarie. La decisione ha segnato un punto di svolta: l’ingresso nel mondo del lavoro, anche se “precario”, è sufficiente per considerare il giovane economicamente autonomo.
I giudici hanno sottolineato che la semplice dichiarazione dei redditi non determina l’autosufficienza economica. Il principio di ragionevolezza stabilisce che un figlio laureato e inserito nel mondo produttivo deve essere considerato indipendente fino a prova contraria. Nel caso specifico, il rifiuto del giovane di presentarsi in tribunale per chiarire la sua reale situazione economica ha giocato a suo sfavore, rafforzando la presunzione di autosufficienza.
Le conseguenze per la madre
La revoca dell’assegno di mantenimento ha avuto effetti diretti sulla madre. Il diritto a vivere nell’ex casa coniugale, legato alla presenza di figli non autosufficienti, è venuto meno. L’immobile, una villetta con ingressi separati, poteva essere utilizzato autonomamente da entrambi gli ex coniugi, rendendo non necessario il mantenimento di un “habitat domestico” per proteggere il figlio ormai indipendente.
La revoca dell’assegno non ha carattere retroattivo pieno. L’obbligo del genitore cessa a partire dalla data della domanda di revoca, ma le somme già percepite dal figlio non devono essere restituite. Allo stesso tempo, eventuali arretrati maturati nel periodo precedente non sono dovuti se non ancora versati, rispettando i principi di irripetibilità delle prestazioni alimentari.
Un segnale per i giovani adulti
La decisione di Torino ribadisce che l’ingresso nel mondo del lavoro trasferisce l’onere della prova sul figlio. Non è più il genitore a dover dimostrare l’autosufficienza, ma il giovane a dover provare di non essere economicamente autonomo per cause non dipendenti dalla propria volontà.
La sentenza rappresenta un richiamo all’autoresponsabilità dei figli adulti. Il diritto al mantenimento non può diventare una rendita a vita, soprattutto quando gli strumenti per costruirsi un futuro sono stati forniti e utilizzati. Rifiutare di collaborare in tribunale o dichiarare redditi minimi senza giustificazione concreta può comportare la revoca dell’assegno e la perdita dei benefici connessi alla casa familiare, segnando la fine del “paravento del lavoro precario”.