Scavi clandestini ad alta tecnologia, migliaia di reperti trafugati e una rete criminale collegata alla ’ndrangheta: l’operazione “Ghenos” svela un traffico illecito di beni archeologici dal valore stimato di 17 milioni di euro.
CATANIA – Una vera e propria stirpe di tombaroli, organizzata e tutt’altro che improvvisata, capace di operare con strumentazioni tecnologiche avanzate e di alimentare un vasto traffico illecito di reperti archeologici. È quanto emerge dall’operazione “Ghenos”, condotta dai carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale di Palermo, che ha portato all’esecuzione di 45 misure cautelari nei confronti di altrettanti indagati.
L’indagine, coordinata dalle Procure di Catania e Catanzaro e affiancata dall’inchiesta parallela denominata “Scylletium”, ipotizza a vario titolo i reati di associazione per delinquere, violazioni in materia di ricerche archeologiche, impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, furto, ricettazione, autoriciclaggio, esportazione illecita e contraffazione di opere d’arte.
Secondo gli inquirenti, la filiera criminale avrebbe avuto il proprio epicentro a Paternò, con ramificazioni a Lentini, in provincia di Siracusa, e si sarebbe estesa fino ai parchi archeologici della Calabria, in particolare nelle aree di Catanzaro, Reggio Calabria e Crotone. Sullo sfondo dell’inchiesta emerge anche un presunto collegamento con ambienti della ’ndrangheta, riconducibili alla cosca Arena.
Gli indagati, in larga parte residenti a Paternò, avrebbero operato in due gruppi strutturati, specializzati nel saccheggio sistematico di aree di rilevante interesse storico e culturale. Gli scavi, rigorosamente notturni e clandestini, venivano effettuati utilizzando metal detector, georadar e altri strumenti di ultima generazione, con gravi danni alla morfologia dei siti archeologici.
La prima fase investigativa ha consentito il sequestro di circa 10 mila reperti archeologici, tra cui 7 mila monete antiche riconducibili a conii rari di epoca greca, provenienti dai territori della Magna Grecia e della Sicilia. Tra i reperti figurano esemplari di eccezionale valore storico-culturale attribuibili alle zecche di Heraclea, Reggio, Selinunte, Katane, Siracusa, Panormos e Gela.
«Con il materiale recuperato – ha sottolineato il procuratore di Catania Francesco Curcio – si potrebbe allestire uno dei più importanti musei archeologici a livello nazionale», a conferma della portata del patrimonio sottratto illegalmente.
L’inchiesta ha avuto anche uno sviluppo internazionale, con arresti in flagranza, perquisizioni e sequestri eseguiti in Germania, consentendo di ricostruire il percorso dei beni trafugati fino alla loro immissione in case d’asta straniere. I carabinieri del Tpc sono così riusciti a delineare l’intera struttura della cosiddetta “archeomafia”, come evidenziato dal procuratore aggiunto Fabio Scavone.
Il sodalizio criminale, secondo l’accusa, si articolava in diversi livelli: dai tombaroli addetti agli scavi, dotati di attrezzature specifiche – dalla “branda” allo “spillone”, fino a mezzi per il movimento terra – ai ricettatori locali, per arrivare ai trafficanti internazionali del mercato illecito dell’arte. Le perquisizioni eseguite nel mese di novembre hanno inoltre portato alla scoperta, nell’area catanese, di una zecca clandestina utilizzata per la produzione di falsi manufatti archeologici e per la contraffazione di monete in rame e ceramica.
Sull’operazione è intervenuto anche l’assessore regionale ai Beni culturali Francesco Paolo Scarpinato: «La Regione sostiene con forza il contrasto al traffico illecito di beni archeologici e opere d’arte, con l’obiettivo di rafforzare gli strumenti di tutela e la valorizzazione del patrimonio che rappresenta la memoria e l’identità della Sicilia».
Le persone coinvolte sono da considerarsi innocenti fino a sentenza definitiva di condanna, nel pieno rispetto del principio di presunzione di innocenza. Chiunque voglia esercitare il diritto di replica può farlo nei modi e nei termini previsti dalla legge.
