L’omicidio del 21enne nel cuore di Palermo scuote la città e riaccende il tema della sicurezza. Mentre la giustizia fa il suo corso, lo Stato reagisce con decisione, ma la riflessione resta: la legalità non può essere un riflesso episodico, deve tornare un valore condiviso e continuo.
PALERMO – L’eco del colpo di pistola che ha strappato la vita a Paolo Taormina non si è ancora spento. La città si fermerà per l’ultimo saluto al giovane, vittima di un gesto insensato che ha ferito nel profondo un’intera città. Il sindaco Roberto Lagalla ha proclamato il lutto cittadino, con bandiere a mezz’asta nei palazzi comunali e un minuto di silenzio in tutti gli esercizi commerciali. Al porto di Palermo, il triplice fischio delle navi ormeggiate saluterà Paolo, in un gesto antico e potente, simbolo di un dolore collettivo che unisce istituzioni, lavoratori e cittadini.
Un addio silenzioso e composto, come silenzioso è il senso di smarrimento che attraversa Palermo. Perché quel colpo, sparato nel cuore della movida, ha colpito non solo un ragazzo, ma anche l’idea stessa di sicurezza e convivenza civile. Un gesto che il giudice per le indagini preliminari ha definito di «totale disprezzo per la vita umana», ordinando la custodia cautelare in carcere per Gaetano Maranzano, il 28enne arrestato con l’accusa di omicidio volontario.
Durante l’interrogatorio al carcere Pagliarelli, Maranzano avrebbe confermato di aver sparato, raccontando di essersi sentito “sfidato” e “preso in giro” dalla vittima, ma ha taciuto su eventuali complici e sulla provenienza dell’arma. «Mi stava provocando – avrebbe detto. Non ci ho visto più e ho sparato». Una confessione che lascia sgomenti, perché racconta l’assurdità di una violenza che nasce dal nulla, da un’offesa percepita, da un impulso incontrollato. Parole che restituiscono la fragilità di un tempo in cui la reazione sostituisce il pensiero, la rabbia diventa linguaggio, la pistola uno strumento di affermazione.
A confermare la dinamica è stata Sofia Taormina, sorella della vittima: «Mio fratello era uscito dal locale per calmare gli animi, dicendo “non litigate”. Ma l’altro ha tirato fuori la pistola e gli ha sparato in testa». Un racconto che taglia il fiato, simbolo di una gioventù travolta da una violenza che non le appartiene, ma che la circonda sempre di più.
La reazione delle istituzioni non si è fatta attendere. Al Viminale, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha incontrato il presidente della Regione Renato Schifani e il sindaco Lagalla per definire un piano straordinario di sicurezza nel capoluogo. L’intesa prevede tre nuove “zone rosse” – Vucciria, Teatro Massimo e Maqueda-Stazione – dove verranno potenziati i controlli, rafforzate le pattuglie e installati nuovi sistemi di videosorveglianza. Stanziati anche 2,7 milioni di euro per la prevenzione e il contrasto ai reati, con un piano che prevede il raddoppio degli agenti municipali e l’affiancamento di servizi di vigilanza privata nelle aree a rischio minore.
«Ringrazio il ministro Piantedosi per la disponibilità e la concretezza – ha dichiarato Schifani. È un segnale chiaro: lo Stato c’è, e non arretra. È nostro dovere restituire sicurezza e fiducia ai cittadini, soprattutto dopo una tragedia come questa». Sulla stessa linea Lagalla: «Palermo ha bisogno di legalità e di presenza costante. Questa è una risposta concreta e doverosa, per i cittadini e per la memoria di Paolo».
Ed è qui che il racconto di cronaca si intreccia con la riflessione. Lo Stato ha reagito con forza, e ha fatto bene. Ma ogni reazione, per essere credibile, deve diventare azione permanente. Palermo oggi è presidiata, ma quante città in Sicilia vivono quotidianamente la stessa tensione, senza riflettori e senza vertici ministeriali?
Basti pensare a Catania, dove appena un mese fa si sono registrati diversi episodi di sparatorie in vari quartieri della città. Colpi d’arma da fuoco, anche di grosso calibro, contro attività commerciali, mentre i cittadini, comprensibilmente, restavano in casa per timore. Poi, come spesso accade, il silenzio, e la città è tornata al suo ritmo abituale. Anche lì le istituzioni e le forze dell’ordine hanno operato con impegno e professionalità, ma forse sarebbe servita una presenza ancora più visibile dello Stato, così come quella che in queste ore si è manifestata con forza a Palermo.
La violenza che uccide un ragazzo di ventuno anni o quella che trasforma un quartiere in un campo di battaglia hanno la stessa radice: la perdita del senso del limite, della responsabilità e della legalità. Per questo la reazione dello Stato non deve restare confinata a un evento tragico, ma trasformarsi in una presenza costante, visibile, educativa. Perché il messaggio più forte che si può dare ai giovani non è la punizione, ma l’esempio. E l’esempio, oggi più che mai, deve venire da istituzioni unite e coerenti, capaci di mostrare che la giustizia non è vendetta, ma protezione.
Palermo piange Paolo, ma da quel dolore può nascere una consapevolezza nuova. Una città più attenta, uno Stato più presente, una società meno indifferente. Perché, come scriveva spesso Antonio Gramsci, “la verità è sempre rivoluzionaria”, e in Sicilia la verità è che non c’è futuro senza legalità, né giustizia senza memoria.