Odiare senza confini: giustizia, politica e dolore sotto la morsa dei Social Media
Il confronto tra tre vicende emblematiche degli ultimi giorni ci costringe a interrogarci su un fenomeno sempre più diffuso: l’odio che si scatena nei confronti di chi ricopre un ruolo pubblico o, più in generale, di chi “per ragioni diverse” rispetta regole, doveri e procedure. Da un lato, la sentenza resa dal Tribunale di Catania ( in riferimento a due diverse sentenze, che hanno riguardato un professore universitario e un militare accusati di violenza sessuale, entrambi sono stati assolti dalle rispettive accuse) ha innescato una vera e propria gogna mediatica sui social; dall’altro, l’insulto e la minaccia rivolti a una bambina, figlia del Presidente del Consiglio, hanno rappresentato il culmine di un clima politico avvelenato; infine, il dramma della morte di Santo Re, giovane pasticcere catanese, ha dato luogo a critiche feroci contro istituzioni giudiziarie.
Che cosa accomuna queste tre “storie”? Perché, in tutti e tre i casi, assistiamo a un’ondata di rancore che travalica la semplice critica per trasformarsi in vera e propria violenza verbale? La vicenda del Tribunale di Catania è paradigmatica. È noto che, in un regime di diritto, l’esito di un processo “assoluzione o condanna” non deve cambiare la legittimità dell’esercizio della giurisdizione: il giudice interpreta le prove, applica la legge e scrive motivazioni che, se sgradite, possono essere rimesse in discussione in sede di impugnazione. Eppure, dopo la pubblicazione della sentenza, sui social network si sono moltiplicati insulti, invettive e perfino minacce rivolte ai magistrati e alle loro famiglie. Dalle critiche tecnico-giuridiche, pur severe, si è passati all’oltraggio personale, con post che invocano vendette, denunce di complotti, accuse di corruzione pronte soltanto a infiammare l’opinione pubblica anziché a chiarire i punti controversi della decisione. Ciò avviene «sempre nel rispetto dei limiti di continenza, verità, interesse pubblico e proporzionalità della notizia», come recita un comunicato della Giunta locale, ma è proprio sul web che questi confini vengono varcati con estrema facilità.
Ancora più sconcertante è il caso della minaccia alla figlia del Presidente del Consiglio: «Auguro alla figlia della Meloni la sorte della ragazza di Afragola». Un messaggio di tale ferocia ha sollevato lo sdegno trasversale di tutta la politica e costretto il ministro dell’Istruzione ad aprire una indagine interna sul docente ritenuto responsabile del testo su Instagram. La premier ha definito quel post la fotografia di un «clima malato», in cui «tutto sembra lecito, anche augurare la morte a un figlio per colpire un genitore». Il linguaggio usato sui social, secondo la Presidente, non è semplice scontro politico, né tantomeno rabbia in senso tradizionale, ma piuttosto un’«oscurità» generata dall’odio ideologico. Per la prima volta, la politica si è stretta in un coro unanime di condanna: i vertici delle istituzioni di governo, a partire da presidente del Senato e presidente della Camera, fino ai due vicepremier e a tutti i ministri, hanno bollato come «ignobili» e «orrende» le parole rivolte a una bambina innocente. Accade pure che quasi in contemporanea, a Catania si consumi un’altra tragedia: la morte di Santo Re, pasticcere di 30 anni e padre di una bimba di pochi mesi, ucciso a coltellate da un parcheggiatore abusivo. Nel susseguirsi di commenti e ricostruzioni, l’indignazione si trasforma presto in accuse generiche al «sistema», alla «burocrazia» e persino a «chi percepisce denaro per ogni migrante entrato illegalmente nel nostro Paese». Parole carezzate da una retorica di vendetta: «Santo non è morto solo per mano di un assassino, ma è stato assassinato da uno Stato che tollera la clandestinità». Anche qui i toni salgono rapidamente, travalicando il limite tra indignazione e istigazione all’odio, un sentimento che alla fine non rispecchia davvero ciò che si pensa. In un’epoca in cui le leggi garantiscono diritti e tutele a chiunque, compresi gli stranieri senza permesso di soggiorno, si assiste a un fenomeno paradossale: chiunque può amplificare insoddisfazione e risentimento senza rendersi conto che tra i protagonisti di queste vicende ci sono persone di carne e ossa, famiglie sconvolte e baluardi istituzionali che pur con tutti i limiti del caso sono chiamati a fare il loro dovere.
Qual è il denominatore comune? Sembra che tanto i media tradizionali quanto i social siano inondati da notizie false o incomplete, da interpretazioni faziose e da spunti emotivi che smuovono le masse. È facile diffondere mezza verità con un click, come è facile scatenare commenti feroci grazie all’anonimato e alla natura virale delle piattaforme digitali. Quando si legge soltanto il titolo o un paio di righe estrapolate, senza approfondire il contesto, si finisce con l’accumulare rabbia senza sapere chi si stia davvero criticando: se un giudice che applica la legge, un genitore la cui unica colpa è quella di avere un familiare in primo piano, o una generazione di migranti in cerca di speranza. Dietro ogni click, tuttavia, c’è un cervello differente, spesso più sensibile di quanto si pensi, che subisce un colpo alla reputazione di chi, invece, ha il dovere di restare fedele a un codice processuale o a un incarico di governo. A un giudice spetta il diritto e il dovere di esaminare carte e testimonianze secondo le norme, benché qualcuno accusi la lentezza della giustizia o il «mettere in libertà» di chi a suo dire « non merita clemenza». Al premier spetta invece di guidare un Paese nel rispetto delle regole costituzionali, un compito che può generare risentimenti, ma non la minaccia fisica o morale. Allo Stato, infine, compete il delicato bilanciamento fra accoglienza umanitaria e controllo delle frontiere: se una legge consente a uno straniero di permanere sul suolo nazionale, possiamo discutere la bontà di quella norma, ma non possiamo ritenere le istituzioni responsabili di ogni tragico fatto isolato.
Di fronte a questa escalation di odio, c’è chi si chiede: cosa rimane da fare? Innanzitutto, occorre riaffermare la necessità di sostenere chi lavora nelle strutture istituzionali e giudiziarie, come pure le forze dell’ordine che, spesso, si trovano a fronteggiare situazioni rischiose. Certo, è legittimo sollevare critiche, chiedere chiarezza o auspicare riforme, ma tutto diventa fuor di senso quando ci si scaglia contro le famiglie dei magistrati, oppure si augura la morte a una bambina che nulla ha a che fare con le scelte politiche dei genitori. In secondo luogo, è doveroso essere consapevoli del potere insidioso dei social media. Un post sensazionalistico o un commento violento possono scatenare onde d’urto ben più vaste di quanto qualsiasi utente possa immaginare. Basta una fake news per gettare fango su un operato o per far precipitare la credibilità di una persona, e una condanna sommaria senza contraddittorio diventa come un linciaggio digitale: non c’è processo, non c’è diritto di replica, ma soltanto un branco che si riversa alla ricerca di un capro espiatorio. Se si vuole davvero dare un senso alla critica, bisogna esercitare anzitutto il diritto-dovere di informarsi: leggere le sentenze, studiare i processi di stabilità di un governo o le ragioni di chi si occupa dell’accoglienza e del controllo delle frontiere, senza limitarsi a titoli o a opinioni altrui.
Infine, quando ci si avvicina alla cabina elettorale, non bisognerebbe lasciarsi guidare da simpatie personali o dal passaparola, ma bisogna andare a leggere il curriculum di chi si candida. Esaminare i percorsi di studio, verificare le esperienze lavorative e le posizioni assunte in passato: solo così si potrà scegliere un rappresentante capace di affrontare questioni complesse, dal diritto penale all’immigrazione, dal lavoro alla sanità. Se fossimo tutti più attenti a come utilizziamo il nostro voto, non saremmo poi sorpresi di trovarci impreparati di fronte a certe emergenze o di rimanere indifesi quando le decisioni di un tribunale o di un governo diventano bersaglio di odio ingiustificato.
Il giudice di Catania, la bambina minacciata sui social, il giovane Santo Re ucciso senza un perché condividono oggi il medesimo destino: ognuno di loro (o, più precisamente, ognuno di esse perché la vittima innocente non ha scelta) è diventato simbolo di un sentimento collettivo che si nutre dell’assenza di dialogo, dell’immediatezza delle fake news e dell’incapacità di ragionare sul lungo periodo. Se vogliamo davvero cambiare registro, dobbiamo mettere da parte gli insulti, l’istinto di vendetta e l’odio gratuito. Serve un gesto di responsabilità: sostenere chi, nell’ambito istituzionale e giudiziario, si attiene alle norme; appoggiare le forze dell’ordine che garantiscono la sicurezza quotidiana; e, soprattutto, fare sì che i social non diventino il regno dell’improvvisazione ma restino uno strumento di condivisione consapevole. Nel momento in cui ciascuno di noi deciderà di usare il proprio cervello “e non soltanto le proprie emozioni più impulsive” per valutare una notizia, verrà meno quell’odio cieco che oggi, troppo spesso, ci fa dimenticare il valore della verità, della moderazione e del rispetto reciproco.