Hayat, un femminicidio annunciato: dodici ore di fuga e il vuoto delle tutele
La fuga dell’ex compagno di Fatimi Hayat – 46 anni, cuoca, da tempo residente a Foggia – è durata meno di mezza giornata. I carabinieri lo hanno fermato in piazza della Croce Rossa, a Roma, con ancora addosso abiti macchiati di sangue. Secondo gli inquirenti l’uomo, connazionale e coetaneo, era già sotto divieto di avvicinamento con braccialetto elettronico, mai applicato per «motivi tecnici»; a luglio era scattata pure un’ordinanza di custodia in carcere, rimasta lettera morta perché l’indagato risultava senza fissa dimora. Hayat è stata uccisa a coltellate a pochi passi da casa, nell’antico quartiere cittadino, dopo mesi di pedinamenti, minacce e denunce: il Centro antiviolenza Telefono Donna aveva segnalato un «rischio elevato» di femminicidio già a giugno.
Il delitto rimette al centro la questione della protezione reale delle vittime. Secondo l’Istat, solo una donna su tre che subisce violenza fisica o sessuale denuncia; la quota scende ulteriormente se si tratta di violenza psicologica, economica o digitale. Il timore di ritorsioni, la dipendenza economica e lo stigma sociale restano barriere enormi. In troppi casi le aggressioni cominciano lontano dalle botte: controllo del telefono, isolamento dagli amici, umiliazioni, minacce velate. Segnali spesso minimizzati – dalle vittime stesse o da chi dovrebbe intervenire – ma che possono sfociare nell’omicidio.
Sul piano normativo, l’Italia dispone dal 2019 del “Codice Rosso”, una corsia preferenziale che obbliga la magistratura ad ascoltare la persona offesa entro tre giorni. Nel 2023 il Parlamento ha varato la cosiddetta “legge Roccella”, che accelera l’applicazione delle misure cautelari, estende l’arresto in flagrante anche a chi viene filmato nell’atto di minacciare e introduce l’obbligo del braccialetto elettronico per gli indagati violenti.
Ma i numeri delle uccisioni di partner o ex partner non scendono. Per questo, lo scorso 23 luglio il Senato ha approvato all’unanimità il ddl 1433, che inserisce il nuovo reato autonomo di femminicidio (art. 577-bis c.p.) punito con l’ergastolo quando l’omicidio deriva da volontà di possesso, dominio o odio verso la donna. Il testo – ora all’esame della Camera – prevede aggravanti più dure per maltrattamenti domestici, stalking, mutilazioni genitali, aborto forzato e revenge porn; obbliga i pm a decidere sulle misure cautelari entro 30 giorni e impone percorsi di formazione specialistica per magistrati e forze dell’ordine.
Il caso Hayat mostra però che la legge da sola non basta. Servono dispositivi elettronici funzionanti, un’anagrafe nazionale degli irreperibili, risorse per i centri antiviolenza e percorsi di autonomia economica per chi denuncia. Occorre introdurre l’educazione affettiva a scuola e avviare campagne permanenti che spieghino che la violenza non è solo un livido: è togliere la carta di credito, leggere i messaggi, umiliare davanti ai figli, diffondere foto intime. Finché questi atti resteranno «invisibili», molte donne continueranno a non varcare la soglia di una caserma; la paura di ritorsioni e lo stigma sociale, infatti, tengono ancora troppe vittime lontane dalle forze dell’ordine.
La rete di protezione non può reggersi solo sul coraggio della vittima: è responsabilità collettiva ascoltare le prime richieste di aiuto, trattare ogni minaccia come un potenziale omicidio e garantire che le misure disposte vengano davvero eseguite.