Riforma della giustizia, il suo destino politico e istituzionale si deciderà nei prossimi mesi
La riforma della giustizia che separa le carriere tra giudici e pubblici ministeri è legge, ma il suo destino politico e istituzionale si deciderà nei prossimi mesi, quando gli italiani saranno chiamati al referendum confermativo. Intorno a questo snodo si è sviluppato un confronto intenso tra il direttore de Il Fatto Quotidiano, Peter Gomez, e il procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita, intervistati da Giuseppe Pipitone. Un dialogo che diventa quasi un’analisi sul futuro dello Stato di diritto.
«Secondo me non sarà una campagna elettorale dai toni accesi», prevede Gomez. «Il comitato del no cercherà di mobilitare chi è contrario al governo Meloni. Ma è un tema complicato, difficile da spiegare. Se chiedi a un cittadino medio se il pubblico ministero debba essere terzo come il giudice, ti risponderà sì. È un’idea semplice, e proprio per questo vincente. Ma la giustizia non è semplice, e chi la riduce a slogan rischia di travisarla».
Sullo stesso punto Ardita è netto: «Questa riforma non ha nulla a che vedere con la velocità dei processi o con il funzionamento della giustizia. È un fiocco su uno scatolo vuoto, una riforma dimostrativa che però allontana il pubblico ministero dalla cultura del giudice e dalla giurisdizione. Il rischio è che la banalizzazione porti i cittadini a un voto inconsapevole». Il Parlamento l’ha approvata, i comitati per il sì e per il no si stanno organizzando. Nel primo c’è anche Antonio Di Pietro, simbolo della stagione di Mani Pulite; nel secondo, giuristi e magistrati preoccupati per gli equilibri costituzionali. «A destra molti sono spaventati dal potere crescente che questa separazione potrebbe dare ai pubblici ministeri. Oggi dirigono le indagini, ma domani, separati dai giudici, rischiano di diventare ancora più indipendenti, quasi incontrollabili. Non è che stiamo creando un super poliziotto che non risponde a nessuno?». Il paradosso è evidente: separare oggi può significare comprimere domani. La traiettoria possibile è già lì, “un pubblico ministero che in qualche modo dipende dal ministro della giustizia”. Le leve disciplinari e di carriera hanno un peso psicologico che nessuna comparazione neutralizza.
Dietro il testo approvato, dice Gomez, intravede logiche di scambio politico: «È il frutto di un compromesso. Forza Italia voleva il premierato, la Lega l’autonomia differenziata, e in cambio si è chiusa la partita con la separazione delle carriere. Non è il modo in cui si scrive una riforma costituzionale». Il procuratore aggiunto va oltre: «Un autogoverno dei pubblici ministeri separato e privo della cultura della giurisdizione sarebbe peggio della dipendenza diretta dall’esecutivo. In Portogallo, dove il modello è stato sperimentato, i pm si sono politicizzati, passando dalle funzioni giudiziarie alla politica attiva. È la prova che un sistema del genere produce una magistratura che comunica, che si promuove, che misura la propria forza sul consenso mediatico: “Abbiamo arrestato 150 persone” diventa un titolo, non una garanzia di giustizia».
La comunicazione, in questo senso, rischia di sostituirsi al diritto. Ardita parla di «deriva della rappresentanza», un fenomeno che attraversa anche la magistratura. «Gli errori ci sono stati – ammette – ma la vicenda Palamara non è un errore tecnico, è un errore politico. I magistrati, come operatori, lavorano con onestà. Ciò che non funziona è l’autogoverno, la parte politica della magistratura».
Un punto sul quale si ricorda «il caso Palamara ha mostrato un sistema di correnti e di scambi che replica, in piccolo, i vizi della politica». Ma anche qui la soluzione non può essere una riforma simbolica che sposta poteri senza risolvere problemi.
Il dibattito si allarga al sorteggio dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Gomez lo definisce «una buona idea, ma realizzata male. Se un magistrato a caso può decidere della mia libertà, perché non può essere sorteggiato anche per il Csm». Ardita concorda sul principio, ma avverte: «La combinazione tra sorteggio e separazione delle carriere è micidiale: altera l’equilibrio tra i poteri dello Stato». Potrebbe trasformare la magistratura in un corpo separato e, allo stesso tempo, più vulnerabile. Poi la riflessione più amara: «Con l’abolizione dell’abuso d’ufficio siamo forse l’unico Paese d’Europa in cui prendere un interesse privato in un atto pubblico non è reato. Questo è il vero squilibrio, non la presunta vicinanza tra giudici e pm».
La conclusione è affidata a una proposta concreta: «Non serve dividere la magistratura ma riformare davvero il processo penale. Semplificarlo, ridurre i tempi, evitare passaggi infiniti e motivazioni chilometriche. Un processo deve durare un anno, non dieci. È così che si restituisce credibilità alla giustizia».
Un equilibrio fragile, che si regge sulla fiducia dei cittadini e sulla trasparenza delle istituzioni. Il referendum di primavera, in fondo, sarà molto più di una consultazione tecnica: sarà una prova di maturità per la democrazia italiana.
Chiunque voglia esercitare il diritto di replica può farlo nei modi e nei termini previsti dalla legge.
