Palermo, la città che resiste: sicurezza, mafia e il dovere collettivo di non voltarsi altrove

La conferenza stampa alla Squadra mobile di Palermo, convocata per illustrare l’operazione antimafia che ha portato a cinquanta arresti, diventa un ritratto profondo dello stato della città e della sua lotta quotidiana contro la criminalità organizzata.

La conferenza stampa alla Squadra mobile di Palermo, convocata per illustrare l’operazione antimafia che ha portato a cinquanta arresti tra trafficanti, spacciatori e uomini dei mandamenti della Noce e di Brancaccio, è diventata molto più di un resoconto investigativo. È stata l’occasione per descrivere, con crudele lucidità, lo stato attuale della lotta alla mafia e il fragile equilibrio sociale in cui la città continua a muoversi.

Le parole del procuratore Maurizio de Lucia hanno colpito per la loro nettezza: «noi non ci occupiamo di sicurezza ma di repressione dei reati. E io sono sempre attento che ciascuno debba svolgere il suo ruolo. Ma la sicurezza effettivamente è un concetto ampio. La sicurezza non va intesa solo come sforzo delle forze dell’ordine sul territorio. Lo sforzo, obiettivamente, mi sembra sotto gli occhi di tutti. Se si fa una passeggiata nelle zone della nostra città i presidi della Polizia sono presenti. E’ ovvio che c’è un grosso sforzo da parte dello Stato per questo. Ma la sicurezza è un concetto molto più ampio e dipende da come la città vive e gestita, dalla sua pulizia, dalla sua luminosità, la notte è importante».

Una frase che richiama a responsabilità più profonde, quasi a ricordare che la criminalità trova linfa dove la città sprofonda nelle sue crepe. Le organizzazioni mafiose, oggi, non sono più quelle degli anni delle stragi, ma non per questo appaiono meno pericolose. «Cosa nostra è più debole, ma non è affatto sconfitta», afferma de Lucia. Si muove in silenzio, osserva, si adatta. E soprattutto punta a ciò che garantisce guadagni immediati: il traffico di droga.

L’operazione di queste ore, coordinata dalla Dda, mette in luce un panorama inquietante. Al fianco dei veterani riemergono giovani leve, attratte da una struttura che continua a esercitare fascino nei quartieri dove mancano alternative. È qui che il procuratore richiama con forza il ruolo della politica e della società civile: senza luoghi di aggregazione, senza scuole adeguate, senza spazi sicuri, la subcultura mafiosa continua a presentarsi come una risposta semplice in contesti dove tutto sembra difficile.

Il blitz ha documentato anche un canale stabile tra clan palermitani e un gruppo di Camorra per lo scambio di stupefacenti. Un’alleanza che ribadisce come gli affari, oggi, siano il vero collante del sistema mafioso. Smantellare la rete superiore – quella che coordina, muove capitali, gestisce approvvigionamenti – significa colpire un livello più alto di comando, non solo il volto visibile dello spaccio. Ma è un lavoro che necessita di continuità, risorse, visione.

Non meno allarmante è il quadro delineato dalla dirigente della Sisco, Valentina Crispi: nel quartiere della Noce le vittime delle estorsioni non denunciano. Una fotografia amara, che conferma un dato noto ma sempre difficile da accettare: il numero delle imposizioni criminali è ben più alto di quello registrato nelle denunce. «I commercianti devono capire che lo Stato può proteggerli», ribadisce de Lucia. Ma fidarsi dello Stato è un atto che richiede coraggio, e non tutte le comunità ne dispongono in uguale misura.

Il ruolo delle forze dell’ordine emerge come elemento centrale. Il questore Vito Calvino, il capo del Servizio centrale operativo Vincenzo Nicolì, il dirigente della Mobile Antonio Sfameni, insieme alle sezioni Criminalità organizzata e Narcotici, descrivono un lavoro enorme, quotidiano, fatto di pedinamenti, intercettazioni, analisi di movimenti minimi che spesso nascondono operazioni complesse. La dedizione è totale e la macchina investigativa lavora senza sosta: ma, come sempre, non può bastare.

Perché mentre gli arresti si susseguono, i clan si riorganizzano. Spuntano figure anziane come Pierino Di Napoli, 86 anni, ritenuto “custode dell’ortodossia criminale”, e giovani boss come Fausto Seidita, appena quarantenne, secondo l’accusa, “scelto per guidare il mandamento”. La mafia resta un organismo vivo, che alterna “colombe” e “falchi”, strategie silenziose e gesti eclatanti. Un sistema che respira, muta, si infrange e si ricompone con una rapidità impressionante.

L’immagine che emerge è quella di una città «in fibrillazione»: la definizione più usata dagli investigatori. Una Palermo che resiste, ma che ancora oggi deve fare i conti con un potere che non arretra, che si nutre di vuoti sociali, che si infiltra nelle economie e nelle paure quotidiane. E allora l’appello del procuratore diventa il vero cuore di questo momento: la repressione non basta. Servono scuole, impianti sportivi, servizi, cultura. Serve, in altre parole, un modello di vita alternativo che spezzi quel legame perverso tra marginalità e consenso mafioso.

La domanda finale resta sospesa: cosa c’è nel futuro di Palermo? I boss scarcerati guardano agli affari leciti, le giovani leve cercano visibilità, la droga continua a essere il motore economico, il pizzo un marchio di dominio. Chi governa, però, non può accontentarsi di leggere queste dinamiche: deve riscriverle. Perché se è vero che lo Stato c’è, come tutti ribadiscono, allora deve esserci anche la città. Una città che non cede, non si abitua e non rinuncia a pretendere ciò che le spetta: libertà, sicurezza, dignità.

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