Nelle prime ore della notte la Polizia di Stato ha eseguito 14 ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal Gip di Catania, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia guidata da Francesco Curcio, nei confronti di soggetti ritenuti, a vario titolo, appartenenti o contigui al clan Scalisi di Adrano. Secondo l’impostazione accusatoria, ancora al vaglio dei giudici, vengono contestati i reati di associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, estorsione, detenzione abusiva di armi, oltre a ricettazione e accesso indebito a dispositivi di comunicazione da parte di detenuti: condotte che, per la Procura, sarebbero state «commesse al fine di agevolare il sodalizio mafioso del clan Scalisi».Il provvedimento si innesta in un filone già sfociato, il 16 settembre, nel fermo di dieci persone, poi tradotte in carcere dopo la convalida del Gip. Nel corso dell’inchiesta, riferiscono gli inquirenti, è emerso anche un progetto omicidiario che avrebbe avuto come regista Pietro Lucifora, ritenuto reggente della consorteria, deciso – secondo gli atti – a vendicare la morte del figlio Nicolò Alfio, ucciso durante una rissa tra giovani nel Siracusano.Le intercettazioni hanno delineato un agguato da compiere a Francofonte negli ultimi giorni di settembre, contro obiettivi non compiutamente identificati.Il piano, ricostruisce la Dda, prevedeva dettagli operativi e coperture: l’uso di false divise dell’Arma dei carabinieri per “avvicinarsi” alle vittime, il noleggio di un furgone privo di localizzatore satellitare per il viaggio Abruzzo-Sicilia-Abruzzo, la ricerca di armi. Tra i «compartecipi del piano omicidiario» figurerebbero, sempre secondo l’accusa, lo zio del reggente, Pietro Schilirò, e «alcuni appartenenti al suo nucleo familiare», residenti a Chieti, con il supporto di un ulteriore soggetto nell’area di Pescara. Per costruirsi un alibi, Lucifora si sarebbe recato a Chieti in occasione delle nozze dello zio (20 settembre), per poi scendere in Sicilia, colpire e rientrare in Abruzzo. Nel garage in uso a Schilirò, a Chieti, la polizia ha sequestrato due divise dalla foggia simile a quelle dei carabinieri, ritenute funzionali al progetto di sangue; in ulteriori attività sono stati trovati oltre un chilogrammo di stupefacente (cocaina e marijuana) e tre pistole con relativo munizionamento.Il quadro investigativo comprende anche il capitolo carceri, – come mette in evidenza il capo della Procura Curcio – per la Procura alcuni indagati avrebbero mantenuto comunicazioni illecite dall’interno degli istituti penitenziari, «continuamente» tramite telefoni cellulari, per conservare i rapporti con l’esterno e – è l’ipotesi accusatoria – pianificare nuove attività delittuose. «Il lavoro sistematico sulle organizzazioni criminali consente di cogliere anche in via di progettazione le attività criminali». «In questo caso è stato possibile scongiurare l’esecuzione di uno o più omicidi, per i quali era stato elaborato un piano molto articolato, acquisendo addirittura delle finte divise da carabiniere per potersi “avvicinare”. Tutto sarebbe avvenuto in questi giorni contro le vittime predestinate».
«Il nostro sistema carcerario – dice Francesco Curcio, procuratore della Repubblica di Catania – è indifeso rispetto alle penetrazioni di cellulari. Probabilmente a livello più elevato del nostro, chi ha la responsabilità amministrativa e politica della gestione delle carceri, deve porsi il problema di schermare nel modo più opportuno gli ambienti penitenziari». «Se all’interno del carcere il telefonino non può essere usato perché l’ambiente è schermato, per questo sarebbe inutile averli e il problema sarebbe risolto. La pena deve rieducare, benissimo, ma come li rieduchiamo se continuano a delinquere nel carcere? Io questo mi chiedo». «Tutto questo vanifica le indagini: si lavora per anni, si fanno processi che costano milioni di euro, il sudore dei magistrati e della polizia giudiziaria e poi chi viene condannato continua a fare quello che faceva prima».
Nota: procedimento nella fase delle indagini preliminari. Tutti gli indagati sono da ritenersi innocenti fino a eventuale sentenza definitiva di condanna.