A Siracusa si respirava un’atmosfera quasi sovrannaturale: il primo settembre, nel silenzio ovattato del santuario della Madonna delle Lacrime, fece il suo ingresso il cardinale Robert Francis Prevost, appena chiamato al soglio pontificio con il nome di Leone XIV. Don Aurelio Russo, rettore del santuario, ricorda con voce velata di commozione: «Portava con sé un dono prezioso: il saluto e la benedizione di Francesco». E lo consegnò come chi porge un lume acceso nella notte, con una semplicità che toglieva il fiato, perché «Prevost è la semplicità fatta carne, un’anima umile».

Poco prima della benedizione conclusiva, il futuro Papa divenne tramite vivente del suo predecessore: «L’altro giorno — confidò —, mentre Francesco si preparava per l’Asia, mi ha chiesto: “Dove vai?”. “A Siracusa, dalla Madonna”, gli ho risposto. Allora mi ha affidato il suo saluto e le sue preghiere per voi». Ancora oggi si ricordano il suo sguardo franco, la parola misurata e quel sorriso capace di accogliere chiunque: «Un pastore che, come un prevosto medievale che veglia sul suo popolo, mantiene lo sguardo su ciascuno con cura».

Legatissimo alla Vergine, Prevost invitò i fedeli a unirsi in un’Ave Maria «per il Papa e per il suo cammino missionario» e più volte esortò: «Preghiamo affinché questo viaggio splenda di spirito apostolico». Rifacendosi alle prime parole pronunciate da Leone XIV, parlò di pace mondiale: «Francesco vi chiede di pregare per tutti i popoli, per chi soffre a causa di guerre, violenza e odio».

Rimase a Siracusa tre giorni intensi: sostò davanti alla casetta di via degli Orti, dove un tempo l’immagine sacra aveva versato lacrime; pregò nel luogo del martirio di Santa Lucia e attraversò le antiche catacombe a lei intitolate e quelle di San Giovanni. «È un uomo di preghiera, ma anche di profonda cultura», sottolinea don Aurelio. Persino nella biblioteca arcivescovile volle cercare conoscenza: si definisce «prete viaggiatore» e, in qualità di padre generale degli Agostiniani, ha solcato ogni continente.

Le consorelle del santuario ancora sussurrano la sua schiettezza: «Un cuore grande». Don Aurelio chiude il ricordo con convinzione: «La Madonna lo ha voluto qui perché ora è chiamato a condividere le lacrime di tutta la Chiesa». E davvero, il suo cognome Prévost viene dal francese medioevale prevost, a sua volta dal latino praepositus, che significa «posto davanti», «posto a capo», calzando come un guanto a chi è chiamato a guidare con umiltà.

La scelta del nome pontificale profetizza un papato desideroso di abbracciare le sfide sociali: «Sarà un Papa vicino ai poveri, al lavoro, alla giustizia», egli stesso aveva promesso. Nato a Chicago 69 anni fa da genitori di origini francesi e spagnole, studiò matematica e filosofia prima di dedicarsi al diritto canonico a Roma. Visse due decenni in Perù come missionario, educatore e vescovo; nel 2013 fu confermato alla guida degli Agostiniani per un secondo mandato e, nel 2023, Francesco lo chiamò a dirigere il dicastero dei vescovi.

Discreto e laborioso, ama il tennis e si muove in città con un’utilitaria anonima. «Sa dissolversi nella folla quando serve e comparire con decisione al bisogno», osservano i confratelli. Il suo motto episcopale, In Illo uno unum — «in Cristo siamo tutti uno» — richiama Sant’Agostino: una Chiesa che non erige muri ma costruisce ponti.

Ed è proprio dal loggione di San Pietro che, nel suo primo saluto da loggia, Leone XIV ha lanciato un appello universale: «Con dialogo e incontro, uniamoci per essere un solo popolo in pace». Così, tra le lacrime di gioia che ancora bagnano le pietre di Siracusa e la nuova speranza che illumina Roma, il pontificato di Prevost si delinea come un viaggio pastorale guidato da una figura che, come il prevosto d’un tempo, si pone con discreta autorità a capo di una comunità assetata di pace e vicinanza.