Quando la legge premia il carnefice: Giovanni Brusca torna libero senza aver mai pagato davvero?
Nessuna riconciliazione, nessun perdono: Giovanni Brusca è oggi un uomo libero, non per meriti suoi, ma grazie alle disposizioni del nostro ordinamento. Il boss che ha premuto il telecomando della strage di Capaci, uccidendo il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, e che ha ordinato il rapimento e l’atroce omicidio del tredicenne Giuseppe Di Matteo, non ha scontato fino all’ultimo giorno la sua colpa. Pur avendo confessato oltre centocinquanta delitti, è riuscito a evitare oltre un quarto di secolo di detenzione “piena” grazie al meccanismo di sconti di pena previsto per i collaboratori di giustizia. Arrestato il 20 maggio 1996, Brusca viene riconosciuto collaboratore di giustizia già nel 2000: l’istituto del pentitismo, voluto dallo stesso Falcone per colpire Cosa Nostra dall’interno, gli garantisce sostanziali riduzioni di pena. Invece di scontare l’ergastolo fino all’ultimo giorno, ottiene progressivi benefici fino a lasciare il carcere di Rebibbia il 31 maggio 2021, dopo 25 anni. È vero: un tempo lungo, ma insufficiente per bilanciare la ferocia dei suoi crimini. Le famiglie delle vittime non hanno mai ottenuto un vero ristoro, né la certezza che la sofferenza da lui inflitta trovasse un peso proporzionato nella pena.
A partire dall’uscita dal carcere, Brusca è stato sottoposto a un regime di libertà vigilata durato quattro anni, con regole stringenti: obbligo di firma quotidiano, divieto di uscire prima dell’alba e di rientrare oltre una certa ora, controllo dei contatti telefonici e banali divieti di comunicare con parenti “non autorizzati”. Il Tribunale di Palermo gli aveva inoltre imposto un anno di sorveglianza speciale con obbligo di dimora. Tutte misure che oggi, a partire dal 3 luglio 2024, sono state revocate con un colpo di spugna. Il magistrato di sorveglianza, rispettando la legge, ha motivato la revoca affermando che non sussistono più profili di pericolosità sociale e che il suo “percorso collaborativo”, contrassegnato da nessuna rivelazione sugli eventuali tesori nascosti o su complici rimasti nell’ombra, giustifica la fine di ogni vincolo. Ma per i familiari dei caduti, non c’è certamente alcun senso di giustizia.
Il sospetto di patrimoni illeciti non dichiarati e di affari condotti anche dall’interno del carcere ha attraversato indagini e perquisizioni, ma la Corte di Cassazione ha infine escluso prove concrete. L’unica accusa mossa dalle autorità, l’uso non autorizzato di schede telefoniche per comunicare con la famiglia, in questo caso è stata sufficiente a prorogare la libertà vigilata per pochi mesi, finché anche quel pretesto è venuto meno. Oggi, con un volto di pensionato tra i pensionati, Brusca si aggira nel suo rifugio segreto lontano dalla Sicilia. Ogni mattina fa la spesa, compra qualche giornale, possibilemente legge le pagine locali che parlano di delitti mai risolti e di mafiosi latitanti. Nessuno lo riconosce, nessuno osa avvicinarlo. Protetto da un sistema di sicurezza statale e da un’identità di comodo, vive come un uomo qualunque, ma senza aver mai davvero pagato il totale prezzo della sua violenza.
L’ultima decisione delle autorità palesa l’incapacità delle leggi sul pentitismo di ripristinare un equilibrio tra colpa e pena: la giustizia riparatrice dovrebbe garantire che chi semina morte raccolga altrettanta sofferenza, almeno sotto forma di isolamento e riflessione. Invece, il legislatore ha scelto di premiare la collaborazione anche di chi, come Brusca, per molti non si è mai pentito veramente. Mentre il boia di Capaci, il cui soprannome “u verru” racconta la ferocia del suo operato cammina libero, Falcone e i suoi agenti riposano ormai da decenni nei cimiteri. Il piccolo Giuseppe Di Matteo non è più un ragazzo da riparare e le sue urla disperate non risuonano più nelle aule di giustizia. Il meccanismo del pentitismo ha funzionato: la coscienza collettiva è stata sacrificata sull’altare dell’efficacia investigativa, e chi ha osato tradire i segreti mafiosi ha ottenuto per molti un prezzo d’addio troppo basso.
Non c’è redenzione senza giustizia vera, né percorso di risocializzazione quando il passo verso la società civile è lastricato di impunità. Fino a quando le leggi non sapranno bilanciare la protezione offerta ai collaboratori con il diritto delle vittime a un risarcimento morale e penale davvero proporzionato, il senso della pena resterà un privilegio per chi ha saputo tradire, purché lo abbia fatto fino in fondo, non per chi ha sofferto. Giovanni Brusca è libero, ma la sua condizione mette in luce una possibile falla del sistema giudiziario, che riduce la memoria delle vittime a un mero atto burocratico.