Rap, smartphone e dirette dal carcere: l’allarme del sindacato di polizia penitenziaria

C’è ancora chi si sorprende dell’uso dei telefonini in carcere, ma basta scorrere i social per trovare intere “playlist” di “carcerati su TikTok”, “video dei detenuti” o perfino “dirette dalla cella”». A dirlo è Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria, commentando il caso del concerto a Catania in cui il rapper Baby Gang ha mostrato sul palco immagini – presumibilmente in videocollegamento – del boss Niko Pandetta.

Nel frattempo, una perquisizione nella cella di Pandetta, rinchiuso nel carcere di Rosarno, ha portato al sequestro di un telefono cellulare. Di Giacomo ricorda che non si tratta di episodi isolati: dal celebre videoclip girato da Baby Gang a San Vittore, alle “performance” nel carcere di Terni di tre detenuti campani convertiti in cantanti neomelodici, fino ai festeggiamenti – pizza inclusa – di alcuni reclusi, sempre a Terni, con il volto coperto da sciarpe.

«L’uso diffuso degli smartphone dietro le sbarre è un insulto alle vittime e alle loro famiglie», incalza il sindacalista. «Immaginiamo cosa prova chi ha perso un figlio o ha subito violenze vedendo l’aggressore esibirsi online». Il fenomeno, avverte, lancia ai giovani il messaggio fuorviante di criminali trasformati in “eroi”, alimentato da serie televisive come *Gomorra* o *Mare Fuori*.

Ma c’è di più: per i boss detenuti, i social non sono solo una vetrina, bensì uno strumento di potere, utile a impartire ordini all’esterno. «Denunciamo da tempo che l’uso disinvolto dei cellulari non può continuare a umiliare le vittime e lo Stato – conclude Di Giacomo –. Ne traggono vantaggio soltanto i detenuti legati alle organizzazioni mafiose, mentre i reclusi comuni soccombono. Chiediamo a Governo e Parlamento di non voltarsi dall’altra parte: nelle carceri si può comandare comodamente dalla cella, via chat».