Le esportazioni di veicoli elettrici cinesi raddoppiano nel 2025, mentre in Europa gli impianti lavorano al 55% della capacità. L’Italia scende al 35%, tra incertezze industriali e politiche di incentivo a intermittenza.
L’industria automobilistica mondiale è entrata in una nuova era, e la Cina corre a una velocità che l’Europa fatica a tenere.
Nel solo mese di settembre 2025, le esportazioni di veicoli elettrici made in China hanno superato le 220 mila unità, secondo i dati della China Association of Automobile Manufacturers.
Un record che certifica la forza di un sistema produttivo integrato, alimentato da politiche pubbliche aggressive, incentivi statali e una filiera interamente controllata, dal litio alle piattaforme software.
Nel frattempo, il Vecchio Continente arranca. Le fabbriche europee di auto elettriche operano mediamente al 55% della capacità, un dato che riflette una crisi strutturale: impianti sottoutilizzati, costi fissi in aumento, margini ridotti e un futuro incerto per migliaia di lavoratori.
In Italia, il quadro è ancora più critico: in diversi stabilimenti l’utilizzo effettivo delle linee scende sotto il 35%, segnale di una stagnazione produttiva che rischia di diventare permanente.
La Cina esporta tecnologia, batterie, software e veicoli finiti a prezzi che l’Europa non riesce a eguagliare. Il segreto è una filiera completamente integrata e un controllo quasi totale sui materiali strategici, un vantaggio che consente a Pechino di invadere i mercati globali con auto economiche ma sempre più avanzate.
L’Europa, invece, paga la lentezza delle transizioni, la burocrazia, la frammentazione industriale e la mancanza di una visione politica unitaria.
La sfida non è soltanto economica, ma geopolitica.
Mentre la Cina espande la propria influenza attraverso joint venture e stabilimenti all’estero, Bruxelles prova a difendersi con dazi e indagini sui sussidi di Stato. Ma senza una vera politica industriale comune, il rischio è di trasformare l’Unione in un semplice mercato di consumo per auto prodotte altrove.
In Italia, la transizione ecologica resta sospesa. La produzione cala, la domanda interna è debole e le politiche di incentivo vanno e vengono, senza una direzione chiara.
Eppure, la questione non è solo ambientale: è di sovranità tecnologica.
Finché batterie, software e componenti resteranno in mani asiatiche, il valore aggiunto dell’auto europea si dissolverà, insieme a posti di lavoro e competenze.
Servono decisioni coraggiose, non slogan.
L’Europa deve investire in innovazione, ricerca e infrastrutture, costruendo un sistema industriale in grado di competere per costi e qualità.
Altrimenti, la rivoluzione elettrica rischia di essere scritta altrove: il motore dell’auto del futuro continuerà a battere lontano da qui.