Palermo, tra ombre e speranze: la lunga eredità delle stragi e il futuro da ricostruire
Speranze inconfessabili e verità negate attraversano come due rette parallele la Palermo che ogni anno si misura con il peso degli anniversari delle stragi mafiose. La città, camaleontica e sfuggente, si lascia interrogare da simboli potenti e domande innocenti, che spesso colpiscono più di mille discorsi. Una di queste domande è arrivata da un bambino di Brancaccio, quartiere simbolo della Palermo profonda, dove visse e fu ucciso don Pino Puglisi, il prete martire assassinato dai fratelli Graviano, boss stragisti condannati a più ergastoli. A rivolgersi al Procuratore generale Lia Sava è stato un alunno delle scuole elementari: «Io posso diventare giudice anche se mio padre è in carcere? Perché io lo voglio redimere». Una frase che ha il potere di capovolgere ogni stereotipo sulla Palermo senza speranza. «Questa domanda, ha detto il Procuratore Sava in un’intervista a L’Espresso restituisce il senso profondo del nostro lavoro. E, in fondo, anche del nostro futuro». In un intervista pubblicata da zerozeronews di Gianfranco D’Anna al magistrato Alfonso Sabella, esce fuori uno spacato, dove esistono ancora molte ombre, ma ci sono ancora speranze, la nostra isola continua a essere un laboratorio di cambiamento: qui si intrecciano coraggio, cultura, giustizia e la forza di un popolo che non si arrende mai.
Eppure, questo futuro è ancora incagliato in un presente che non riesce a far pienamente luce sul passato. Palermo resta impigliata in una rete fitta di misteri, infamie, apparenze e silenzi. Verità ufficiali che non convincono e verità giudiziarie mai pienamente condivise. «L’errore più grande, ricorda Alfonso Sabella, nell’intervista rilasciata a Gianfranco D’Anna, è pensare a Cosa nostra come a un’entità immobile. Al contrario, la mafia ha una straordinaria capacità di adattamento: cambia forma, ma resta sempre uguale a se stessa». Oggi la lotta alla mafia si trova di fronte a un nuovo paradosso. Mentre si celebrano le vittorie del passato, esplodono nuove contraddizioni. L’ex procuratore di Trapani Alfredo Morvillo, fratello di Francesca Morvillo e cognato di Giovanni Falcone, ha lanciato un monito forte alle istituzioni e alla società civile: «Siamo davvero tutti dalla stessa parte?». Una domanda che arriva in un contesto dove l’antimafia è talvolta attraversata da veleni e sospetti, e dove esponenti delle istituzioni anche di vertice risultano indagati per presunte corruzioni.
Palermo e la Sicilia sembrano nuovamente specchiarsi in un passato che si credeva superato. «Temo un ritorno al clima degli anni ’90 ammette Sabella, quando la mafia militare si mescolava con una certa politica e con un’imprenditoria collusa che controllava appalti e commesse pubbliche. Il punto è che oggi, rispetto ad allora, la mafia ha capito che può comprarsi lo Stato: una mazzetta costa meno di un omicidio e non fa rumore. Ma questo non cancella il fatto che la violenza è nel suo Dna, e può sempre tornare». Nel ricordare quella stagione di sangue e resistenza, Sabella invita a riflettere sul potenziale che lo Stato ha oggi per contrastare le mafie, grazie al sacrificio di magistrati come Falcone e Borsellino. «Lo Stato ha oggi tutti gli strumenti normativi e investigativi per vincere questa battaglia. La differenza sta nella volontà politica e istituzionale. Quando mi rivolgo agli studenti, ricordo sempre che la mia più grande soddisfazione è stata smentire Nino Caponnetto, che sul luogo della strage di via D’Amelio disse sconsolato: “È finito tutto”. Invece non era finito niente: abbiamo preso tutti i responsabili, cancellando lo stragismo corleonese nel pieno rispetto delle regole».
E poi, la domanda che capovolge ogni analisi: «Se noi, che eravamo poco più che apprendisti stregoni, siamo riusciti a ottenere questi risultati, cosa sarebbe accaduto se Falcone e Borsellino avessero avuto gli stessi strumenti, risorse e leggi che noi abbiamo avuto dopo? Forse oggi racconteremmo una Storia d’Italia diversa, sicuramente migliore». Il 19 luglio, giorno della strage di via D’Amelio, si avvicina con il suo carico di ricordi, tensioni e polemiche. Sarà la 33ª commemorazione della morte di Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta, e si preannuncia più incandescente che mai. Ma il ricordo che supera ogni polemica è quello personale, intimo, umano.
«Conobbi Paolo Borsellino quando ero giovanissimo, in tirocinio. Ci tenne una lezione magistrale sull’etica della magistratura. Mi colpì la sua umiltà, la sua schiettezza e la sua profonda umanità. Diceva che il magistrato non combatte nemici, ma applica le leggi in uno Stato di diritto. Fu amore a prima vista: decisi che avrei voluto lavorare con lui». Sabella racconta anche un aneddoto poco noto: quando apparve la bozza delle sedi disponibili per i nuovi magistrati, c’era un posto alla Procura di Marsala, guidata da Borsellino. Lui e un altro collega, Bruno Fasciana, erano entrambi interessati e andarono a trovarlo. «Paolo fu delizioso, ma anche arrabbiatissimo. Il CSM gli aveva promesso due nuovi magistrati, e invece la sede di Marsala fu poi cancellata del tutto». Ironia della sorte, entrambi finirono a Termini Imerese, alla procura guidata da Giuseppe Prinzivalli, lo stesso che anni prima aveva assolto i responsabili della strage di piazza Scaffa e criticato duramente Borsellino.
«Dopo la sua morte – conclude Sabella nell’intervista pubblicata da zerozeronews di Gianfranco D’Anna – mi presentai al CSM a denunciare Prinzivalli per i suoi rapporti con personaggi in odore di mafia. Forse è stato anche il mio modo per chiedere perdono a Paolo». Oggi, a distanza di trentatré anni, il ricordo di Borsellino e Falcone non è solo una commemorazione, ma una domanda aperta rivolta al presente: che uso stiamo facendo della loro eredità? E siamo davvero, tutti, dalla stessa parte?