Abramo: «L’esercito in strada? Una risposta semplicistica. Serve un patto con le periferie»
Catania continua a fare i conti con un clima di forte tensione sociale e criminale, alimentato dagli ultimi episodi di sangue che hanno scosso la città. L’omicidio avvenuto lo scorso sabato in pieno centro, così come quello registrato a giugno, hanno riacceso il dibattito sulla sicurezza e sulle misure da adottare per ridare serenità ai cittadini. In questo contesto è tornata a circolare l’ipotesi di schierare l’esercito nelle strade, proposta che divide l’opinione pubblica e la politica locale. A contestare con decisione questa soluzione è Emiliano Abramo, presidente della Comunità di Sant’Egidio a Catania, che a la Repubblica ha spiegato: «L’esercito in strada a Catania servirebbe solo a tranquillizzare l’opinione pubblica fino al prossimo episodio. È una non-risposta. Il vero lavoro qui è investire cinque anni seriamente nelle periferie: scuole, presidi sociali, luoghi di incontro».
Abramo conosce bene gli “invisibili” della città, dai senza tetto ai disoccupati, fino a quel ceto medio che fatica ad arrivare a fine mese. E proprio dalle periferie parte la sua analisi: «Credo che la militarizzazione sia una risposta semplificata a un problema complesso. A Catania il tasso di dispersione scolastica è tra il 20 e il 25% da tantissimi anni e quelli che negli anni scorsi non andavano a scuola nel frattempo sono diventati sedicenni e ventenni. In quei contesti non siamo stati presenti. E poi, considerando che per gli omicidi sia dello scorso giugno sia di sabato l’aggressore era un extracomunitario, penso che abbiamo delle leggi che favoriscono, o quantomeno creano, la clandestinità».
Il riferimento è a San Berillo, quartiere storicamente emarginato: «Qui abbiamo il quartiere San Berillo, che i catanesi chiamano “il quartiere delle prostitute”. In realtà è una semplificazione, perché è il quartiere che storicamente ha accettato coloro che la città respingeva. Una volta erano i trans, poi i drogati, oggi gli stranieri che dopo la chiusura del Cara di Mineo si sono impossessati di questa sacca. E c’è anche un grande problema di consumo di droga. Abbiamo speso dei soldi per insegnare loro a suonare gli strumenti quando erano al Cara, a imparare la lingua, a conoscere la geografia della Sicilia e poi di colpo li abbiamo buttati in mezzo alla strada. I nostri giovani finiscono dallo psicologo se vengono lasciati dalla fidanzata. Pensi a chi ha attraversato il deserto, che poi magari è stato stuprato in Libia ed è finito nel Mediterraneo. Se non è integrato può uscire fuori di testa. Potrei raccontarne mille di queste storie».
La mancanza di strutture dedicate, secondo Abramo, alimenta il disagio: «Catania, per esempio, non ha un dormitorio pubblico. Il fatto che non si sia pensato alla questione dei poveri, oppure a un qualunque ragazzo nigeriano che vive per strada con la fidanzata o moglie perché non c’è un luogo dove possono dormire insieme, crea tensione sociale che, soprattutto in condizioni di degrado, esplode».
Un altro nodo è quello delle armi: «C’è una quantità di armi in città che fa paura. Dai coltelli nelle tasche dei ragazzi, alle risse che fino a pochi anni fa non c’erano, almeno non con questa frequenza».
Critiche anche alla cosiddetta legge Caivano applicata al quartiere San Cristoforo: «Una risposta “una tantum” e basta. La Sicilia è piena di realtà che operano con i poveri, associazioni religiose e non religiose che hanno scelto di stare nelle periferie. Non se ne è tenuto conto. Consegnare dei locali a un’associazione avrebbe voluto dire aprire un doposcuola, un centro di incontro. Sarebbe stato molto utile. Invece hanno finanziato solo infrastrutture e mobilità. Qualche effetto minimo c’è stato, ma se si prendevano dieci universitari per doposcuola si otteneva molto di più».
Per Abramo, la politica deve ritrovare una visione a lungo termine: «Bisogna ritornare a stringere un patto con le periferie, perché Catania è una periferia del suo quartiere Librino. Se si somma la popolazione che abita nei quartieri a rischio, di fatto è il 60-70% della popolazione della città. La politica non deve entrare in polemica perché il problema chiede che tutti remiamo dallo stesso lato. Chi amministra, invece, ha il dovere di rileggere un’azione che si è rivelata non adeguata alla dimensione del problema della città, mettersi in ascolto».