Apertura

Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” che scelse di restare uomo giusto

Trentacinque anni dopo quel 21 settembre 1990, il nome di Rosario Livatino continua a risuonare come monito e come testimonianza. Il magistrato di Canicattì, assassinato in un agguato mafioso sulla statale 640 mentre si recava in tribunale senza scorta, è diventato un simbolo di giustizia intesa come servizio e di fede vissuta nel quotidiano. Oggi, domenica 21 settembre, la città e la Chiesa ricordano il “giudice ragazzino”, beatificato da papa Francesco il 9 maggio 2021. La sua figura resta complessa, difficile da racchiudere in un ritratto definitivo. Schivo, lontano da ogni forma di protagonismo, Livatino rifuggiva le luci della ribalta per difendere la propria indipendenza. Chi lo aveva conosciuto lo descrisse come «un eremita nella sua città», sottolineandone il rigore morale e la scelta consapevole di restare al di sopra di qualunque influenza. Nel Palazzo di Giustizia di Agrigento seppe conquistare la stima dei colleghi grazie alla sua preparazione accurata, alla capacità di approfondimento e a una scrupolosità che lo rendeva custode inflessibile del segreto istruttorio.

Le agende ritrovate dopo la sua morte hanno svelato la sua umanità: annotazioni scarne ma intense, in cui emergevano tormenti personali, fragilità, crisi di fede e la percezione di un destino segnato. Già nel 1986 scriveva: «Ho 34 anni. Invoco la benevolenza divina su quelli che restano», quasi presagendo la fine che sarebbe arrivata quattro anni dopo per mano di quattro sicari.

Quel che lo rese bersaglio della mafia fu il suo modo di amministrare la giustizia: incorruttibile, attento a seguire i flussi di denaro dei clan, determinato a colpire il cuore degli interessi mafiosi e degli intrecci con la politica e gli appalti. Livatino sapeva di essere in pericolo, ma rifiutò la scorta per non esporre altri al rischio e per non preoccupare i genitori. La sua scelta di normalità – andare in tribunale da solo, come ogni giorno – divenne il gesto estremo che lo consegnò alla storia.

Il processo di beatificazione ha riconosciuto in lui un martire della giustizia e della fede. Nella conferenza Fede e Diritto del 1986 scriveva: «Proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio». Per Livatino, ogni uomo – indagato, colpevole o presunto tale – portava in sé la dignità di creatura di Dio.

Oggi la sua eredità vive nella “banalità del bene” che praticava quotidianamente, lontano dai riflettori, con umiltà e fermezza. La memoria del giudice martire non appartiene soltanto alla storia giudiziaria italiana, ma alla coscienza collettiva di un Paese che continua a guardare a lui come a un esempio di integrità e coerenza. Eppure, a trentacinque anni di distanza, resta aperta una domanda: quanto è cambiata l’Italia dopo il sacrificio di Livatino e di tante altre vittime della mafia?

Molto è cambiato, almeno sul piano normativo e istituzionale. La stagione delle stragi e degli agguati che insanguinò gli anni Ottanta e Novanta spinse la società civile a reagire e costrinse la politica a dotarsi di strumenti più incisivi: dalla legge Rognoni–La Torre con l’introduzione del 416-bis all’uso sociale dei beni confiscati sancito nel 1996, fino all’istituzione dell’Agenzia nazionale per la gestione dei beni e alle successive riforme del Codice antimafia. Se un tempo togliere soldi e aziende ai clan era un’eccezione, oggi è diventata una prassi. Negli anni Novanta nacquero DIA, DDA e DNA per coordinare le indagini e superare i feudi investigativi, segnando un cambio di passo nella lotta alla criminalità organizzata. A questo si aggiunsero il regime del 41-bis e il sistema di protezione per collaboratori e testimoni, che hanno indebolito la catena di comando mafiosa riducendo la violenza militare. Sul fronte degli appalti e dell’anticorruzione, nuove norme hanno introdotto tracciabilità dei flussi finanziari e più trasparenza, anche se le mafie hanno spostato il loro baricentro sui colletti bianchi, tra consulenze, fatturazioni e intermediazioni. Infine, l’antiriciclaggio e i controlli bancari hanno spostato la battaglia nella finanza e nei servizi, settori che richiedono competenza e vigilanza costante.

La Sicilia di oggi non è più quella del 1990. Le mafie non dominano militarmente i territori come allora, ma continuano a muovere capitali, a cercare spazio nella politica e a controllare settori economici strategici. Le inchieste giudiziarie dimostrano che la battaglia non è finita, ma si combatte con armi diverse: meno lupare, più colletti bianchi. In questo scenario, la memoria di Rosario Livatino acquista un significato ancora più forte: non solo giudice martire, ma bussola morale per un’Isola che ha bisogno di liberarsi definitivamente dalle zone grigie.

Il coraggio e la coerenza di uomini come lui hanno contribuito a cambiare la coscienza collettiva, ma non basta ricordarli con le celebrazioni. Occorre trasformare il loro esempio in pratica quotidiana, nelle istituzioni, nella scuola, nell’economia e nella società civile. Solo così il sacrificio del “giudice ragazzino” e di tante altre vittime innocenti potrà davvero tradursi in un cambiamento duraturo.

Share
Published by
Alfio Musarra