Di Bella: "le mafie non sono un male ereditario"
di Redazione :: pubblicato il 25 giugno 2020 13:21 :: aggiornato il 26 giugno 2020 17:12

Roberto Di Bella
"Da anni, a chi nasce in famiglie legate alla 'ndrangheta offriamo la possibilità di crescere lontano da modelli educativi malavitosi che portano in carcere o al cimitero". Alla vigilia del suo trasferimento a Catania, Roberto Di Bella, 56 anni, traccia un bilancio della sua attività di Presidente del Tribunale per i minori di Reggio Calabria. In un'intervista che Famiglia Cristiana pubblica nel numero da oggi in edicola, il magistrato racconta di come, grazie al coraggio di donne e giovani calabresi, si stia cambiando mentalità: "L'appartenenza mafiosa non è più un'eredità che si trasmette di padre in figlio".
Di Bella ricorda tanti casi che continuerà a seguire, anche dall'altra parte dello Stretto, perché ormai, per quei ragazzi strappati alla criminalità, è diventato un punto di riferimento. Sono stati circa 90, in questi anni. Volti e storie che porta con sé, uno per uno. Riavvolge il nastro della memoria, il procuratore, andando al momento in cui decise di far nascere quello che sarebbe diventato il progetto "Liberi di scegliere". "Decisi che ora di cambiare passo quando mi sono ritrovato in tribunale il terzo rampollo di una famiglia di 'ndrangheta. Avevo già giudicato i due fratelli intanto divenuti maggiorenni e condannati all'ergastolo. Era in corso una guerra di mafia, gli avevano ucciso il padre e lui era stato sorpreso con un'arma con matricola abrasa e il colpo in canna. Quando lo arrestammo sembrava impassibile come tutti i ragazzi della 'ndrangheta. Rispondeva a tono apparentemente sicuro di sé. Lo condannai", prosegue il magistrato, "e, passato del tempo, la direttrice della comunità dove si trovava, dopo aver fatto il carcere, mi chiamò per dirmi che il ragazzo aveva tanti problemi. Non dormiva di notte, aveva gli incubi, disturbi gastrici tipici di un adulto, sognava di essere ucciso. Mi chiese di parlargli perché aveva bisogno di un riferimento paterno".
"Aveva gli occhi smarriti. Gli chiesi cosa volesse fare. Se voleva percorrere la strada di suo padre ucciso o dei fratelli in carcere per 'ndrangheta. Quella era una parola che non si poteva neanche pronunciare e invece il ragazzo annuì chiedendo aiuto per andare via dalla Calabria", puntualizza Di Bella, "anche se aveva la preoccupazione della madre che era rimasta con il fratellino più piccolo. Io, però, fui trasferito a Messina e non ne seppi più nulla se non che, scontata la pena, era venuto a cercarmi in tribunale. Quando nel 2011 tornai a Reggio Calabria seppi che, purtroppo, non era riuscito a sfuggire a quel destino. Dopo pochi mesi, in tribunale, mi arriva, da giudicare sempre per un reato di criminalità, quello che all'epoca era il fratellino più piccolo che intanto era diventato sedicenne. A quel punto dissi a me stesso e ai miei collaboratori che dovevamo fare assolutamente qualcosa di più. Intervenimmo non solo dal punto di vista penale, ma con provvedimenti civili di decadenza della responsabilità genitoriale della madre e di allontanamento dal nucleo familiare".

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